Impressioni sul Viaggio della Memoria

 
Fotografia dell'uscita del campo di concentramento di Mauthausen dopo la cerimonia
Fonte: fotografia di Sara Relli

Delle 35.000 persone che morirono a Gusen poco si parla. Ed è forse questo ciò che più fa pensare quando si visita questo campo di concentramento, non lontano da Mauthausen: come è possibile che luoghi, che sono stati teatro di tragedie come la Shoah possano, per una ragione o per un’altra, lasciare una traccia evanescente di sé? Come può la memoria a poco a poco svanire se non viene fatto abbastanza per conservarla? E come è possibile che quello che negli anni ’40 era stato l’ufficio delle SS del campo di Gusen possa essere trasformato in una casa dalle mura bianche e dal vialetto ben curato, con la macchina proprio di fronte all’entrata e i fiori che sbocciano nelle aiuole?

Non molto dopo la liberazione del KZ, avvenuta nel maggio del 1945, infatti, gran parte delle strutture cominciarono a sparire e negli anni ’50 fu decisa la lottizzazione dell’area, dove sono sorte tutta una serie di edifici e quartieri residenziali: le baracche dei deportati - ebrei, ma anche deportati politici sovietici, italiani, spagnoli, e malati e invalidi – sparirono, così come la recinzione che delimitava il campo e tutte le altre strutture. Così Gusen, da dove sono passate non meno di 71.000 persone di almeno 27 diverse nazionalità, rischiava di sparire, fino a quando l’associazione dei deportati ha comprato un lotto di terreno e vi ha fatto erigere un monumento; un monumento grigio, labirintico, oltre il quale fanno capolino i tetti delle case, un monumento che ricorda quello dedicato ai deportati di Berlino e che conduce al centro dell’area, occupato dal crematorio: tutto intorno, sulle pareti, le foto e i nomi dei morti. Il memoriale fu inaugurato nel maggio del 1964, a vent’anni dalla liberazione del campo per ricordare i 35.000 morti del KZ Gusen.

Ed è questo appunto l’obiettivo del Viaggio della Memoria promosso dall’Aned sezione di Prato, a cui ho potuto partecipare grazie al Comune di Carmignano: un viaggio che, anno dopo anno, accompagna ragazzi e anziani a visitare i campi di Ebensee, di Mauthausen, di Gusen e ovviamente lo Schloss Hartheim, il castello di Hartheim, per sensibilizzare quante più persone possibili su quanto è avvenuto nel cuore dell’Europa e a pochi chilometri dal nostro confine. Tutti noi abbiamo sentito parlare almeno una volta del campo di concentramento di Ebensee, uno dei più importanti sottocampi di Mauthausen, dove fu deportato anche il sopravvissuto Roberto Castellani, l’uomo che negli anni si è impegnato a lungo per istituire un gemellaggio fra la città di Prato e Ebensee. E tutti noi abbiamo negli occhi la 'Scala della morte' di Mauthausen, la Blutstrasse, la 'via del sangue', quei
186 gradini intagliati nella pietra che i deportati dovevano percorrere giorno dopo giorno per portare blocchi di pietra fino al campo, gradini che d’inverno diventavano lastre di ghiaccio che terminavano nel 'Muro dei Paracadutisti', un abisso formato da una parete di roccia che colava a picco giù nella cava. “Paracadutisti” erano chiamati tutti quei deportati che, scivolando sul ghiaccio, inciampando o venendo spinti giù dalle SS, morivano precipitando nella cava.

Quasi del tutto sconosciuta è invece la Löwengang, il 'cammino dei leoni' come la chiamavano i detenuti, un cammino largo circa 4 metri, delimitato su
entrambi i lati da filo spinato; un cammino accidentato, specialmente quando piove, che si snoda attraverso i boschi che circondano la cittadina di Ebensee e che costituiva per i deportati del KZ la marcia quotidiana dal campo di concentramento alla 'grande cava di pietra' delle gallerie umide e malsane in cui erano costretti a lavorare. Il 'cammino dei leoni' fu tracciato nell’agosto del 1944, quando fu deciso di costruire un sistema di gallerie nelle montagne attorno, dove, secondo i piani, sarebbero state trasferite le officine dei missili V2, dopo che nell’agosto del 1943 il complesso industriale di Peenemünde era stato pesantemente bombardato dagli inglesi. Insieme a ragazzi e adulti del luogo, abbiamo percorso la Löwengang in un pomeriggio piovoso, inerpicandoci su per gli scalini in mezzo al bosco, rischiando di scivolare sul terreno bagnato, mentre gli unici rumori che si potevano udire erano i muggiti delle mucche di una fattoria vicina, di quando in quando il clacson di qualche macchina e soprattutto la pioggia che ticchettava sui nostri ombrelli. 

 
Fotografia del monumento del cimitero di Ebensee
Fonte: fotografia di Sara Relli

Infine siamo arrivati al cimitero di Ebensee, che sorge appena fuori dal bosco, in mezzo alle case, e nella pioggia sono state cantate canzoni in onore delle vittime della Shoah. Lo stesso è stato fatto il giorno durante la Cerimonia Ufficiale per il 71° anniversario della Liberazione del Lager di Ebensee: dopo le testimonianze di un sopravvissuto polacco e di uno francese e dopo che l’attrice austriaca Katharina Stemberger si è scagliata duramente contro i movimenti di estrema destra che sono entrati “in mezzo alla nostra società” e contro tutti coloro, compresa sua nonna, che non hanno parlato della Shoah per non “svegliare i fantasmi del ricordo”, sono state cantate altre canzoni.

Prima fra tutti 'Bella ciao' che per una volta ci fa sentire fieri di essere italiani, ma anche 'We Shall Overcome', la canzone simbolo del movimento per i diritti civili afroamericani, a ricordarci come sempre, in ogni luogo e in ogni epoca, il “diverso”, che sia un nero, un ebreo, un omosessuale, un senzatetto o un oppositore politico, sia stato perseguitato.

Forse perché meno conosciuto, il Castello di Hartheim è uno dei luoghi che più colpiscono fra quelli visitati durante l’intero viaggio: un castello dalle mura bianche, circondato da alberi, che sorge in una zona pianeggiante vicino al Danubio. Sembra quasi impossibile che un luogo del genere sia stato uno dei sei Vernichtungslager dell’Aktion T4, il programma di “eutanasia” che si proponeva di depurare la razza ariana da tutte quelle “vite indegne di essere vissute”, così come sembra impossibile che fino a pochi anni fa, sotto quel prato pulito e ordinato che circonda il castello, fossero ancora sepolti i resti delle persone che vi erano state uccise dal 1940 al 1944. Già nel 1925 nel “Mein Kampf” Hitler scriveva che “Chi non è sano e degno di corpo e di spirito, non ha diritto di perpetuare le sue sofferenze nel corpo del suo bambino”, diffondendo e alimentando quell’ideale barbaro della purezza della razza alla base di quello che è stato chiamato il primo genocidio di stato del regime nazista. Fra le mura di questo vecchio castello bianco furono uccise, secondo alcune stime, circa 30.000 persone, fra malati mentali, disabili, feriti, oppositori politici e comunisti, deportati che avevano lavorato ad Ebensee, a Gusen, a Dachau, a Ravensbrück o nei minori campi satelliti che ruotavano attorno a Mauthausen e che arrivarono ad Hartheim per essere assassinati con il monossido di carbonio nella camera a gas.

Alcune fotografie all’interno del museo ci mostrano i volti di alcune di queste persone, insieme agli oggetti, alle bambole, agli occhiali, agli abiti e ai ricordi personali che furono loro sottratti all’arrivo. Spesso nei campi di concentramento come Mauthausen o Auschwitz le camere a gas sono pulite, in un certo senso ordinate, molto diverse da come erano prima, negli anni Settanta, quando ancora i Viaggi della Memoria erano agli inizi. Quella di Hartheim è diversa, è deserta, con il suo arco, la sua luce azzurrognola e i muri macchiati di nero, mentre un senso di oppressione e di angoscia     difficile da spiegare sembra impregnare quegli stessi muri sporchi.

Al termine della Manifestazione internazionale per il 71° anniversario della Liberazione, appena fuori dal Lager di Mauthausen, proprio mentre uscivano gli ultimi sopravvissuti, anziani, con il fazzoletto bianco e azzurro dei deportati legato al collo, spesso in carrozzina o sorretti da parenti o amici, due file ordinate di manifestanti, con lo stesso fazzoletto bianco e azzurro, alzavano cartelli con i nomi e le cifre di quanti sono morti in questi ultimi anni fuggendo da paesi come la Siria, il Ghana, l’Iraq, l’Afghanistan, la Nigeria, di quanti sono affogati nel Mediterraneo o sono stati trovati congelati e ammassati nei camion sulla via dell’Europa, quell’Europa luogo di cultura, di diritti civili, di democrazia che è costato così tanto costruire.
 

 

 

Sara Relli - ERBA magazine
 
Punto Giovani Europa

Ultima revisione della pagina: 20/7/2016

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