J. Edgar di Clint Eastwood

La mia onestà è la mistificazione

 
Leonardo Di Caprio - foto dal film
hollywoodreporter.com

 
Io so che il pericolo, la minaccia è una finzione. Ho il dubbio persistente di aver scommesso sul cavallo sbagliato e che il gioco sia vano, inutile, forse insensato. Così ho scelto l'inganno, per fare più nero il male e stagliarmici di fronte, vestito di bianco.

La mistificazione maldestra, scoperta infine, grottesca è il segno della mia innocenza. L'innocenza di chi per difendersi si chiude addosso le porte della menzogna. Potevo diventare più nero di quel nero, ma io mi sono salvato. Il giorno in cui ho scelto a chi dare fiducia, senza che lei lo sapesse, mi sono salvato. E se ho pianto di fronte allo specchio è di rabbia, di solitudine, perché io dentro a quei vestiti c'ero, c'ero sempre stato, e non ne sapevo nulla.

Mi hai sempre detto che non si combatte con il male. Che per chi è forte, per chi è nel giusto il male non deve avere il tempo, lo spazio per venire alla luce. Io invece non ho mai avuto questa fiducia: dovevo fingere, per difendere i motivi per cui mi hai insegnato che qualcosa è degno d'amore. Fingere, per costruire i motivi per cui tu mi hai amato. Finché non mi sono trovato a combattere contro la speranza e a essere raggirato e umiliato da chi finge, senza vergogna, senza nulla da difendere, senza paura se non quella di perdere il suo niente.

Ho difeso a lungo con la sua forza lo scudo, il buon nome che lei mi aveva affidato... O forse l'ho usato per me, per nascondermi mentre mettevo ogni cosa al suo posto, come schede in una biblioteca, un castello di schede, opera da ingegneri. Mi sono dato l'immagine di chi si guadagna amore e rispetto perché schiaccia la serpe prima ancora che tu possa vederla e ti spaventa per convincerti che hai bisogno di lui. Ma per fingere, per reggere il castello, ho avuto bisogno di qualcuno a sostenerlo, di qualcuno che sapesse chi ero; che ne reggesse il peso, o non lo sentisse affatto. Non chiamateli complici, nè burattini: loro sapevano il loro ruolo, e anche il mio prima di me e sapevano che non funzionava, da solo.

Il giorno in cui ho scelto di avere lui a mio fianco ho dato a me stesso un esempio che allora non potevo imparare, e forse non avrò il tempo di mostrare di averlo da sempre capito. La verità è che nella disperazione non ci ho mai creduto. La verità è che per tenere in mano questo scudo ho avuto bisogno di credere che prima o poi la stessa mano sarebbe stata capace di quella carezza, che ne avrei avuto l'occasione, sarebbe diventata reale. Capace della sincerità necessaria  per chiedere la fiducia di qualcuno senza spaventarlo, senza chiedergli di scegliere tra la morte e la paura, senza essere rifugio nella disperazione ma per trovare insieme quella porta già da sempre aperta.

La fedeltà è un'altra cosa: non si può essere fedeli alle proprie radici. Si può essere fedeli solo a qualcosa che può diventare migliore o che potrebbe non esserci, come un dono. Ho avuto bisogno di fedeltà e di speranza, di qualcuno che ci credesse per me, che fosse lì ogni giorno a ricordarmi che l'amore è docile e solo chi non crede nell'amore e non lo conosce può farsi amare per paura. Che l'amore non si cede o si conquista sulla base di ciò che si è, si è stati o si appare, ma in nome di quello che ancora dobbiamo diventare. Qualcuno che mentre io ero occupato  a vendermi e comprarmi motivi di ammirazione era lì, per amarmi senza motivo o per difendermi dalla mia pantomima, con silenziosa e severa compassione.

Ma la verità, io l'ho sempre immaginata. Questa storia è un bluff, una scommessa persa in partenza ma giocata fino alla fine. Da solo non potevo vincerla: ho preferito perderla insieme».
 

 



 

Alice Giuliani - ERBA magazine
 
Punto Giovani Europa

Ultima revisione della pagina: 27/6/2016

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