La Grande Bellezza

Il nuovo film di Paolo Sorrentino

 
Locandina del film "La grande bellezza"
Fonte: www.mymovies.it

Di cosa vuol parlare "La grande bellezza"? Forse di qualcosa che alla fine si scopre di aver cercato e per tutto il film si tenta di (o si finge di voler) inquadrare nello schermo, nei giardini nascosti, nello sguardo del protagonista, nei sogni proiettati sul soffitto, fino a restare in un ricordo sospeso sulla spiaggia, fermo-immagine muto; oltre il 'blablabla', o forse prima, in un luogo che è sogno, che si mostra per gioco, che solo un 'trucco' può far apparire e sparire come fa il mago con la sua giraffa. È un po' come il cinema che gioca con la realtà e inventa un trucco per raccontarla; come la morte degli altri, che chiude parentesi che non sapevamo di aver aperto e ci coglie impreparati,  alla prima distrazione.

La morte di Elisa arriva inaspettata: la porta via dall'uomo che l'ha avuta 'realmente' accanto e, insieme, la riporta in vita per chi l'ha lasciata andare e ora deve affidarsi ai ricordi dell'altro per scoprire che c'era un 'possibile' a cui ha rinunciato, senza saperlo. Jap sa solo che per una vita intera si è dedicato a sfidare il nulla 'feroce' per diventare il re di un mondo 'mondano'. Il marito-mai-amato da Elisa, anziché continuare, come da iniziale proposito, nell'adorazione della 'grandezza' di lei, si realizza infine nella banalità serena della realtà quotidiana e lascia scivolare via affettuosamente il suo idolo; il ritorno alla realtà di Jap invece è un viaggio nei sogni, nell'immaginazione di un'occasione persa, di cui non resta più traccia, diario, lettera scritta.
 
Verità senza rappresentazione, dunque irrecuperabile e insuperabile.
 
Jap che si è conquistato il potere di far fallire una festa rivelandone la miseria, Jap che 'esorcizza' quello squallore nella bulimia controllata e distaccata di una volgarità esuberante e esasperata, prova a forzare questo circolo vizioso aggrappandosi al senso di una nostalgia da risvegliare a fatica, che non gli lascia una terra da raggiungere, ma solo un vago ricordo a cui ancorarsi: bellezza rarefatta di un istante surreale, qualcosa che si poteva solo 'vedere'.
 
Forse un 'altrove', in cui si fondono la meraviglia 'immediata' della spiaggia e la semplicità radicale di quella 'santa' centenaria: verità conquistata e rafforzata per sottrazione, ma che come quella "si può solo vivere" o di cui (la 'follia' di Andrea) si può solo morire. Lo spazio vuoto in cui la giraffa scompare si apre con la complicità di una serie di addii inattesi: un ricordo perduto, quasi soffocato nel grigio di un ricordo ormai freddo; la partenza di un amico (Verdone) e con lui della speranza, della tenerezza. La morte, il buio, è il 'trucco' che ci lascia in balìa del mistero in cui essere e nulla coincidono per un istante.

Cosa si può fare, di questo mistero? Forse tentare di ri-viverlo nella malinconia condivisa (Ramona), nella compassione per l'ipocrisia (Stefania), nella commozione della nostalgia e della rinuncia (Verdone), nella ricerca casuale e disperata di stimoli nuovi. Jap Gambardella non ha radici a cui tornare - o da mangiare - per sostenersi con l'essenziale. Il suo destino sembra restare in bilico tra l'ironia 'esponenziale', l'amarezza della perdita e il 'senso' che si vede riaffiorare da questo immenso nulla: non c'è 'altrove' per lui da raggiungere, ma solo questa impossibilità, infine, da provare a dire; solo la bellezza da che si dà per sprazzi quando si cerca e si parla d'altro, apparendo per un istante negli interstizi del reale.
 
Jap resta nella soglia aperta tra l'arrivo e la partenza da sempre, finché decide di restarvi 'davvero'; finché si accorge che nella condivisione delle comuni delusioni, dei comuni fallimenti, delle contraddizioni e delle apparenze meschine, ridere non basta e non è mai bastato innalzarsi al di sopra, guardandosi da una distanza sprezzante, rassegnata e partecipe. Certo: il lusso senza storia, l'arte ridotta a performance priva di senso, la rappresentazione in nome di cui si prostituiscono persino i sentimenti di una bambina, sono la fine dell'arte, la disperazione della bellezza; ma è lì, e non 'altrove', che si continua a cercare. Quel 'nulla' di cui Flaubert avrebbe voluto scrivere, di cui Jap Gambardella è riuscito a diventare il re immaginario, è la desolazione a cui si cerca di sopravvivere e allo stesso tempo la forza da cui sgorga, improvviso, un vero pianto da funerale.

Eppure c'è qualcos'altro che ci accompagna nella visione. Questa 'grande bellezza', che fa sorridere e disperare, sembra avere bisogno di uno sguardo obliquo, che sorvola spazi in cui si sposta come vento, attraversandoli con sicurezza ma senza una rotta, posandosi per un attimo per poi riprendere, con lo stesso coraggio 'insensato', la via del ritorno. Accanto alle visioni coreografie grottesche e ridondanti, alle ripetizioni rituali della regia c'è dunque uno sguardo misterioso che tiene insieme nel loro aspetto 'illusionista' e magnifico i volti segnati e dipinti, i corpi tatuati, le costruzioni visive date da prospettive inusuali, i vestiti come costumi di scena, l'oscenità delle pose. La parodia di una solennità a là Malick (si pensi a fenicotteri super-kitsch sulla terrazza) sembra la strategia umoristica per testimoniare questo sguardo nel suo aspetto 'alieno', incodificabile, straniante.

La denuncia delle contraddizioni  e delle brutture della Roma che 'non è più la stessa', che raccoglie vestigia di nobiltà che si noleggiano per sopravvivere e vivono del proprio ricordo rappresentato o narrato da terzi, è un pretesto su cui la regia, da esperta, investe giustificate energie; intanto però il film propone un'altra visione, un altro gioco. Gli interventi preceduti dalla suspance delle 'grandi' perle di saggezza ("le radici sono importanti"), apparentemente banali, sembrano così guidati dallo stesso umorismo, ben più 'grande' dell'ironia disincantata di Jap, capace di raccontare le sue (ri)scoperte come fossero favola surreale (si veda l'arresto dell'elegante vicino di casa, mai riconosciuto nella sua banalità di latitante).

Né la risposta spirituale della 'santa', nella sua forza, né il ritorno alle radici dell'amico, nella sua tenerezza (la sincerità di Verdone forse è l'emozione più autentica trasmessa dal film, con un Servillo sempre bravo, fin troppo bravo nel rendere gli apsetti 'ingenui' del suo personaggio) sono le risposte di Jap. Il finale è, preso alla lettera, una rinuncia alla grandezza e l'annuncio di una bellezza che si dà per sprazzi incostanti; tra le righe, dice anche che quella bellezza si può cominciare a sentirla solo a partire dal senso ritrovato della fine, della morte, della decadenza di un mondo, di una verità, di un corpo; ma se si cerca di dirla e mostrarla, resta un colpo di teatro, teso sulla soglia tra l'imbarazzo dell'adolescente, la raffinatezza dell'esteta, l'ingenuità dell'abitudine.
 
In questo senso, preso sul serio, il film di Sorrentino finisce dove comincerebbe il libro che Jap sembra decidersi infine a scrivere; o forse finiscono insieme, giacché il romanzo non è altro che la sua storia e sembra non poter raccontare altro che questa ricerca.
 
Ma c'è quel punto di vista ulteriore, nel 'volo' finale della macchina da presa, che annuncia un seguito che non può essere altro che cinema: un modo di scoprire la realtà che non si compiace del suo 'stile' né si si nasconde dietro le altezze e l'impegno morale-civico-esistenziale del suo contenuto (si veda ancora, il confronto tra Jap e Stefania, che visto così diventa il dialogo di Sorrentino con se stesso), né si vanta della propria enigmaticità irrisolta. Un cinema onesto, un'arte onesta, che questo film non realizza ma di cui denuncia forte l'esigenza, nel tentativo di testimoniare la forza che tiene insieme verità e vanità.

 


 
 

 

Alice Giuliani - ERBA magazine
 
Punto Giovani Europa

Ultima revisione della pagina: 11/1/2017

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