Hannah Arendt: la banalità del male

 
Locandina del film "Hannah Arendt"
Fonte: Wikipedia

Per soli due giorni, 27 e 28 gennaio, nelle sale cinematografiche italiane è arrivato un film particolare, "Hannah Arendt", che racconta la vita di una delle più importanti filosofe del XX secolo. Le peculiarità sono molteplici, pur essendo un film che risale al 2012, non è stato doppiato ma solo sottotitolato; è una scelta particolare ma di fondamentale importanza perchè rispecchia quella che è la duplice lingua originale, il tedesco, lingua d'origine della filosofa, negli aspetti intimi della sua vita e l'inglese, la lingua della patria che l'ha ospitata fino alla morte.

La sapiente regia a cura di Margarethe Von Trotta mostra come sia possibile, partendo dalla stesura di un testo ("La banalità del male: Eichman a Gerusalemme - 1963), unire storia, filosofia e vita personale. Il film ricostruisce un periodo fondamentale della vita di Hannah Arendt: i primi anni '60. Nel 1961, quando il Servizio Segreto israeliano rapisce il criminale di guerra nazista Adolf Eichmann, nascosto sotto falsa identità a Buenos Aires, Hannah Arendt, filosofa ebrea all'apice del successo che vive con il marito negli Stati Uniti, si sente obbligata a seguire il processo  al gerarca nazista.

Nonostante i dubbi di suo marito, la donna, sostenuta dall'amica scrittrice Mary McCarthy, chiede e ottiene di essere inviata, come reporter della prestigiosa rivista "New Yorker", a Gerusalemme. Tramite l'intelligente uso del footage, con immagini autentiche del processo, lo spettatore  insieme ad Hannah nota che Eichman, uno dei gerarchi artefici dello sterminio degli ebrei nei lager, è un mediocre burocrate, che si dichiara semplice esecutore di ordini e, d'altro canto, si sorprende nell'ascoltare testimonianze di sopravvissuti che mettono in evidenza la condiscendenza dei leader delle comunità ebraiche verso i nazisti.

"La banalità del male" fa emergere la controversa teoria per cui l'assenza di memoria e la mancata riflessione sulla responsabilità delle proprie azioni, la banalità con cui l'uomo si maschera dietro ad una vita impersonale, avrebbero fatto sì che proprio questo automa diventi l'autore del male. La denuncia di questa condizione esistenziale e l'ammissione dell'aiuto dato dai leader ebraici ai nazisti scatenano uno scandalo in America e in Israele; l'università e la stampa sono fortemente contrarie ma Hannah Arendt non si arrende grazie al supporto di molti allievi e del marito.Per concludere ho scelto di lasciare la parola alla filosofa tramite un'intervista che le è stata fatta nel 1963 dal giornalista americano Samuel Grafton.

Samuel Grafton: "Sono anch'io, come lei, uno scrittore che cerca la verità. Mi sembra che le reazioni al suo libro ("La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme") costituiscano un importante fenomeno politico che necessita di essere analizzato. In quest'ottica mi sono segnato le seguenti domande: ritiene che le reazioni al suo testo gettino nuova luce sulle tensioni della vita e della politica ebraiche? Se è così, cosa rivelano?"Hannah Arendt: "Non ho una risposta definitiva alla sua domanda. La mia sensazione è di aver inavvertitamente toccato la parte ebraica di quello che i tedeschi chiamano il loro "passato irrisolto" (die unbewältigte Vergangenheit). Ora mi sembra che questo problema fosse comunque destinato a presentarsi e che il mio resoconto l'ha cristallizzato agli occhi di quelli che non leggono grossi libri probabilmente anche accelerandone la sua tematizzazione in un discorso pubblico."

Samuel Grafton: "Quali ritiene siano le cause reali della reazione violenta di chi ha attaccato il suo libro?"Hannah Arendt: "Una causa importante mi pare sia stata l'impressione che io abbia attaccato l'establishment ebraico, perché non solo ho messo in evidenza il ruolo del consiglio ebraico durante la soluzione finale, ma ho anche mostrato come i membri di questo consiglio non fossero solamente dei "traditori". In altre parole, poiché il processo ha toccato il ruolo della leadership ebraica durante la soluzione finale e io ho riportato questi avvenimenti, tutte le attuali organizzazioni ebraiche e i loro capi hanno pensato di essere sotto attacco. Quanto è accaduto, a mio parere, è stato lo sforzo concordato e organizzato di creare un'"immagine" e di sostituire questa al libro che ho scritto."

Samuel Grafton: "Lei pensa che gli ebrei nel complesso abbiano imparato qualcosa dall'esperienza di Hitler?"Hannah Arendt: "Non ho dubbi sul fatto che l'esperienza di Hitler abbia lasciato un segno profondo su tutta la popolazione ebraica mondiale. Nel libro ho parlato delle reazioni immediate e talvolta ho pensato che noi siamo testimoni di un cambiamento profondo del "carattere nazionale", per quanto ciò sia possibile. Ma non sono sicura; e mentre penso che sia arrivato il tempo di raccontare i fatti, sento che per un giudizio così ampio non è ancora arrivato il momento giusto. Lasciamo questo alle generazioni future." 

 


 
 

 

Laura Corti - ERBA magazine
 
Punto Giovani Europa

Ultima revisione della pagina: 10/1/2017