Per la morte di David Bowie

Il 'Duca bianco' ci saluta con il suo ultimo album "Black Star"

 
Fonte: selvedgeyard.com

Fa quasi impressione stasera sentire un David Bowie poco più che ventenne, truccato, nelle vesti di Ziggy Stardust, cantare "My death" all'Hammersmith Odeon di Londra nel 1973. Fa quasi impressione, ora, sentirlo intonare i bellissimi versi di Jacques Brel "La mia morte aspetta come un vecchio dissoluto così sicuro, che gli andrò incontro". 

David Bowie se ne è andato "peacefully", in pace, a 69 anni per un cancro. Durante la sua lunga carriera, tutto è stato analizzato di lui, dalla sua infanzia alle sue preferenze sessuali, dalle sue influenze musicali a quelle letterarie. E lo si ricorda in mille maschere, in mille volti: avvolto da una luce rossa con le gambe accavallate che canta "Space Oddity"; mentre recita la parte dell' "uomo caduto sulla terra" nell'omonimo film del 1976; mentre vagabonda per la Berlino della guerra fredda, fra i numerosi cabaret e locali "i cui interni non erano cambiati dagli anni Venti", nella città alla quale dedicherà i bellissimi versi di "Heroes", la celebre canzone incisa all'ombra del Muro e cantata anche in tedesco; e lo si ricorda anche rinchiuso nella sua casa di Los Angeles, in uno dei suoi periodi più bui, perso nell'eroina e in manie di persecuzione, o seduto allo stesso tavolo con Lou Reed e Mick Jagger; o ancora mentre spinge la carrozzina con la prima moglie Angie, così come nelle innumerevoli fotografie con la seconda moglie Iman, lei nerissima e lui, il "Duca bianco", bianchissimo.

 I suoi concerti non sono mai stati soltanto esibizioni alla Lindsay Kemp, il celebre mimo e coreografo britannico che ebbe grande influenza su Bowie, ma hanno sempre avuto una forza tutta loro, perché sostenuti da testi forti, importanti, che toccano innumerevoli temi, tutti velati da una certa malinconia, intimamente legati alle debolezze e all'umanità stessa che rimane sempre, dopotutto, al fondo in ogni uomo.

Temi come quello di un futuro post-nucleare in cui gli uomini devono imparare di nuovo a far l'amore guardando vecchi film in "Drive-in Saturday", temi come la violenza cittadina o la fama sempre più opprimente che mai è stata meglio sintetizzata in una sola frase "Sono prigioniero della mia leggenda"; temi che si intrecciano con la Berlino di Bowie, una Berlino ambigua, dove "è difficile distinguere i fantasmi dai vivi", una città di diseredati, di bar per operai, di cabaret frequentati da travestiti, la Berlino fulcro del mondo moderno, in cui Bowie approdava nei primi anni Settanta e da cui erano fuggiti poco tempo prima artisti come Fritz Lang, Thomas Mann e Bertolt Brecht;  e sempre, onnipresenti, lo spazio, le stelle, i pianeti, una "stranezza spaziale" filtrata prima attraverso gli occhi del Maggiore Tom, poi attraverso quelli dei bambini invitati a guardare attraverso la finestra "l'uomo delle stelle che aspetta in cielo". 

E infine il tempo, in una vecchia canzone scritta a New Orleans, in cui l'ossessionante prima strofa "Time" sembra scandire le ore, i mesi, gli anni, perché il tempo "aspetta dietro le quinte" e "il suo copione siamo tu ed io, ragazzi".  E quella "leggenda" di cui già a trent'anni Bowie si sentiva prigioniero è passata attraverso i decenni, attraverso nuove forme, nuove canzoni, nuovi amici, nuove mogli, nuovi testi, fino all'ultimo album "Black Star", uscito nel giorno del suo sessantanovesimo compleanno, appena pochi giorni prima della morte.

E così, mentre si susseguono gli omaggi di artisti, cantanti, astronauti, primi ministri e fan comuni che si riuniscono a Londra per ricordarlo, e mentre alla radio sentiamo e vediamo continuamente il video di "Lazarus", con David Bowie che entra nell'armadio e chiude l'anta dietro di sé, sembrano riecheggiare i versi di "My Death": "Ma qualunque cosa ci sia dietro la porta, non c'è molto da fare", per cui "non pensiamo al passare del tempo". 

 


 
 

 

Sara Relli - ERBA magazine
 
Punto Giovani Europa

Ultima revisione della pagina: 10/1/2017

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