Il terzo incontro del ciclo "Uomini in guerra" si apre con l'immagine del poliedro, il solido composto da una serie di facce, per cui, quando una di esse è illuminata, le altre sono all'oscuro.
È questa l'immagine di cui si serve l'ospite dell'incontro, Marco Belpoliti, saggista, scrittore e insegnante presso l'Università di Bergamo, per introdurre la figura di Primo Levi, il grande autore nato e vissuto a Torino, passato attraverso l'esperienza devastante della deportazione della Shoah.
Durante l'incontro, tenutosi al Centro Pecci il 19 gennaio, Belpoliti ha presentato il suo libro "Primo Levi di fronte e di profilo", un'opera monumentale frutto di un lavoro ventennale, che, come dice l'autore stesso, può essere letta sia capitolo per capitolo da cima a fondo, ma anche consultata per argomenti.
Rispondendo alle domande della giornalista di "Repubblica", Maria Cristina Carratù, Belpoliti ci presenta un Primo Levi diverso, non più solo "santino" da portare nelle scuole come monito contro il razzismo e l'intolleranza. Levi infatti era anche un uomo profondamente attento alle vicende politiche e sociali della sua epoca, anche minori, e non necessariamente legate alla Shoah, come per esempio al ruolo della scienza all'interno della società. Come dice Belpoliti "non c'è scrittore che, più di Levi, abbiamo "vissuto dentro il Novecento", senza aderire ad alcuna ideologia, in un'epoca, come nota anche Montale, di ideologie contrapposte e di schieramenti".
Il bisogno di raccontare il Lager, quindi, non è solo un atto di testimonianza e di denuncia, ma qualcosa di più intimo e personale, originato da quel "vecchio feroce struggimento di sentirsi uomo", da quella necessità di rimanere attaccati alla vita, come scrive Ungaretti, e che è forse una di quelle caratteristiche comuni ad ogni essere umano che, in ogni epoca e in ogni luogo, vive l'esperienza della guerra, della deportazione o della violenza.
L'esigenza di narrare è descritta dalle parole di Levi come un "bisogno di espellere, come quando uno vomita un pasto che non ha digerito" e questo spiega le innumerevoli pagine buttate giù a mano, anche su fogli volanti, così come quei racconti immediati e occasionali fatti a chiunque fosse disposto ad ascoltare, "sui treni, sui tram, appena riuscivo a suscitare l'attenzione di qualcuno", come avviene nell'ottobre del 1945 sul treno che infine lo riporta a Torino.
Da tutto questo ovviamente non nasce solo "Se questo è un uomo", ma anche "La tregua", libro scritto tra il 1961 e il 1962 e che, come dice Levi stesso, ha potuto vedere la luce soltanto quanto "è venuto il giorno in cui l'equazione tra tempo libero, voglia e pressione degli altri è stata perfetta". Da questa frase si capisce la caratteristica poliedrica, spiegata perfettamente da Belpoliti, che è propria di Levi: si può tentare di capire l'opera di questo 'scrittore per caso' e liberarsi dall'equazione, seppur vera, del Levi-testimone, solo tenendo conto del dualismo costante che domina la vita di Levi. Egli è sì scrittore, ma prima di tutto chimico, entomologo, ma anche astronomo; per questo, come dice lui stesso, scrive "soltanto la sera" e per farlo ha bisogno di "cambiare pelle, ossia per diventare da chimico scrittore".
Belpoliti definisce questa caratteristica come "genialità dell'uomo comune", ossia "genio come regolarità che sta nelle pieghe della sua stessa scrittura", che si vuole porre al di là del vittimismo perché la sua azione è volta soprattutto a fare chiarezza dove prima c'era oscurità.
E' proprio questo che lo porta a porre problemi che travalicano il conformismo della sua epoca e a relegarlo un po' ai margini della scena culturale e letteraria del tempo. Con l'altra sua grande opera, "I sommersi e i salvati", egli affrontò il rapporto fra vittime e carnefici, tema scottante e difficile da digerire per tutti quelli che trovavano - e trovano, in certi casi, anche oggi - comodo dividere nettamente i carnefici dalle vittime, escludendo ogni via di mezzo e ogni sfumatura. "Da rifiutare" dice Levi "l'interpretazione più ingenua, che ci sia da una parte l'oppressore puro, senza dubbi metodici, senza esitazioni, e dall'altra la vittima santificata dal suo ruolo di vittima", dato che "i nostri carnefici appartengono allo stesso genere umano a cui apparteniamo noi".
Subentra così il concetto della cosiddetta "zona grigia", la zona della corresponsabilità, dove si condensano tutte le gerarchie interne al Lager, difficili da giudicare o da condannare, perché, inevitabilmente, nel sistema del campo, ogni uomo lotta per la sopravvivenza. Così facendo, si riducono sempre più i contorni di quella "zona grigia", che, come scrive Levi "insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi"; ed in questo consiste l'altra grande colpa dei nazisti, ossia quella di aver 'sporcato' le vittime e di averle spinte ad una lotta di tutti contro tutti.
Da questo la vergogna dei salvati di fronte ai sommersi, gli unici che potrebbero raccontare fino in fondo la realtà del campo, vergogna definita come quel sentimento che i nazisti "non conobbero"; e che nemmeno i carnefici della nostra, e di ogni epoca, forse conoscono.
Sara Relli - ERBA magazine
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