Mirko Lisella è un giovane fotografo pratese classe ’90, studente all’Università di Design di Calenzano indirizzo visual. Fin da piccolo si appassiona a questo mondo e già all’età di 19 anni, mentre frequenta ancora le superiori, partecipa al suo primo corso di fotografia che è per lui fonte d’ispirazione. Qui incontra un ottimo maestro che lo aiuta soprattutto a capire la fotografia da un punto di vista della sensibilità. Inizia a fare dei piccoli progetti personali nella fotografia ritrattista in studio, ma capisce quasi subito che la sua ‘strada’ è quella della fotografia documentaristica, delle persone e delle emozioni. La gavetta vera l’ha fatta con Pratosfera, con cui ancora collabora, che gli ha offerto la possibilità di confrontarsi con situazioni di cronaca locale e da qualche anno, insieme ad altri fotografi e creativi, ha aperto un proprio studio (studio Momokai), continuando a portare avanti anche molti progetti personali.
Qual è il filo conduttore che c’è dietro la tua fotografia e che lega insieme tutti i tuoi progetti?
La difficoltà della fotografia e di ogni altra disciplina artistica è proprio quella di trovare una linea di base, un punto di raccordo, nel lavoro e nel racconto che portiamo avanti. Io credo di averla trovata nella fotografia documentaristica, in cui rientra anche la street photography, e soprattutto nelle persone.
Di base nelle mie foto c’è un approccio di ‘bonismo’ alla vita, ma questa cosa è voluta, per me è un modo di andare contro la negatività a cui ci ha abituato la società. Tutto questo senso di negatività, cronaca, politica ed i tanti conflitti nel mondo ci fanno capire che c’è più che mai bisogno di positività. La mia paura è che l’essere umano si abitui a questo tipo di immagini e di messaggi, quando in realtà bisogna andare a ricercare la bellezza nelle cose semplici, negli scambi intersociali e nei gesti quotidiani. Negli ultimi trent’anni l’educazione all’immagine è sempre più venuta meno, manca proprio lo spirito di osservazione. Oggi noi non siamo in grado di osservare una scena quotidiana, di cercare i dettagli che sono costantemente intorno a noi. La cosa bella è invece proprio riuscire a trovare questi particolari, belli e positivi, e dopodiché, se c’è un interesse, entrare nella scena ed andare a modificarla. Nel quotidiano possiamo trovare tutto questo.
Come ti approcci ai soggetti che ritrai nelle tue foto che spesso sono immortalati in maniera molto naturale e spontanea? Rubi loro uno scatto o preferisci interagire prima con loro?
L’interazione è essenziale. Non tutti sono però sempre disponibili, perché le persone sono spesso abituate a stare sulla difensiva. Non ci guardiamo più negli occhi ed è sempre più difficile avere uno scambio di questo tipo. Diamo sempre più per scontato che la comunicazione tra le parti sia data dalle parole, invece le parole sono solo il 30% della comunicazione. Ci stiamo scordando che è importantissima la comunicazione non verbale, quella fatta di gesti, movimenti e piccole espressioni. Se tu come fotografo ti lasci andare e ti approcci a ‘mente libera’, la persona davanti a te avrà lo stesso atteggiamento nei tuoi confronti. Io sono appassionato di persone, con loro prima dello scatto devo sempre stabilire un contatto, che può essere anche semplicemente un contatto visivo, uno scambio di sguardi e da lì poi viene il resto. Per fare un esempio, qualche giorno fa ero in Sant’Agostino e vedo un uomo magrebino sui 40 anni vestito in maniera tipica, sulla sinistra una bandiera della pace; ci siamo guardati, abbiamo guardato la bandiera della pace, abbiamo ricambiato un sorriso e da lì è nato uno scatto.
Quali caratteristiche sono per te fonte d’ispirazione nei soggetti che ritrai? Qual è il tuo concetto di bellezza?
Il concetto di bellezza è per me molto vario. Non cerco la bellezza bellezza, ma cerco un tipo di bellezza più particolare. Per me la bellezza è l’armonia tra i difetti; ci sono dei tratti distintivi che se li prendi a parte sono difetti, però se li vedi nel contesto, creano una bellezza che è particolare, unica e per me è quella la vera bellezza. Poi se vuoi prendere la bellezza da top model, allora quello è un altro tipo di fotografia. Non è la stessa lettura e poi a quel punto ti concentri più, da uomo verso donna, a livello sessuale, e ti perdi tutto quel ‘resto’ che c’è da raccontare. Quindi sono due approcci completamente diversi.
Di cosa trattano i tuoi progetti fotografici?
Di base i miei progetti si occupano di fotografia documentaristica di esterni ed interni, basandomi soprattutto sulle persone ed in particolare sul multietnico. Da una parte la realtà multietnica di Prato, partendo da Chinatown dove sono cresciuto avendo frequentato l’Istituto Livi e dove ho iniziato a fare fotografia; dall’altro il multietnico che scopro nei miei viaggi come nel progetto riguardante Sarajevo e quello dei Balcani. Mi piace molto analizzare come negli anni si modificano le comunità locali di Prato e capire come la multiculturalità e multi etnia può coesistere nello stesso luogo. Io comunque penso che le mie fotografie al momento abbiano valore zero. Le mie foto assumeranno valore nel tempo perché hanno la volontà di anticipare un futuro sviluppo.
Questo per quanto riguarda il lavoro verso l’esterno, ma mi piacerebbe iniziare a lavorare anche verso l’interno, sul concetto di entità delle persone, portando avanti dei progetti di storytelling che vanno a descrivere l’anima delle stesse attraverso la fotografia.
Il progetto che ti è rimasto più degli altri nel cuore?
Sicuramente Sarajevo, ma perché è stato l’inizio di un percorso che voglio portare avanti. La prima idea era quella di andare lì e vedere con occhi da esterno l’interazione tra le persone a livello, in un certo senso, obiettivo. Il secondo passo del progetto sarebbe quello di tornare lì ed entrare nelle vite delle persone e nelle loro case. La cosa che mi piacerebbe fare sarebbe quella di trovare dei vicini di casa, o persone che hanno delle relazioni tra di loro anche da semplici amici, che fino a 20 anni fa si erano trovati in opposizione o conflitto per motivi religiosi, di etnie diverse o per motivazioni legate alla guerra.
Quindi tu fai l’antropologo non il fotografo?
Sì, infatti se tornassi indietro farei antropologia non design. Io sono interessato alle persone ed indago la mente umana, ma mi interessa anche capire come culture diverse possono interagire e modificare il modo di comportarsi delle persone. Fin da piccolo infatti ero appassionato di geografia (ero fissato col mappamondo) e alle varie culture che popolano il mondo. Da qui la mia passione per il viaggio, viaggio di cui sono appena all’inizio, e la voglia e la curiosità di conoscere posti nuovi e le persone che vi abitano.
Hai progetti in cantiere che stanno per partire?
Un progetto a cui sto lavorando adesso e che deve partire è una specie di format che porterò in alcune scuole superiori di Prato per capire che idea hanno i teenagers della fotografia, dell’immagine in generale, dei nuovi social network che si occupano di fotografia tipo Instagram. Mi piacerebbe attraverso questo progetto farli riflettere sull’utilizzo che fanno della fotografia e della loro immagine, visto che molti ragazzi delle nuove generazioni usano la fotografia quasi esclusivamente a livello di ego o solo per avere visibilità. Perché non è sbagliato fotografare se stessi, dipende come questo viene fatto. Le persone in generale, ma soprattutto i ragazzi, all’interno dei social non fanno vedere se stessi, ma si mettono delle maschere per far apparire quello che gli piacerebbe essere, non quello che in realtà sono. E’ difficile che uno faccia vedere una sua debolezza.
Per conoscere meglio l’attività di Mirko Lisella:
Pagina FB Mirko Lisella
Profilo Instagram mirkolis
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