Bagno d'amore

 

Si parla di bagno d’amore quando non ti vedo.
Che passano le settimane e ancora non ti sento.
Né per colpa mia né per colpa tua: semplicemente è così.
Capisco di amare veramente una persona quando non la rivedo da sette giorni. Il sentimento genuino che mi scaturisce dalle braccia quando cerco i corpi morbidi, spigolosi, tondi e quadrati per sentire che ci siete, vivi tra le mie dita, è il mio metro di giudizio per capire quanto amore donarvi tra quelle ossa che sento sotto la vostra pelle.
 
La prima volta che credo di essermi fatta una doccia – stavolta – d’amore, fu quando ti conobbi.
Ti cercavo con gli occhi già al secondo giorno dopo esserci conosciute. Le mani sfioravano appena con poca frenesia quel corpo tuo che si trovavano d’improvviso a toccare, troppo vicino per una semplice amicizia troppo lontano per scavare in profondità. Al quarto giorno erano le nostre dita a cercarsi, al settimo le spalle, all’ottavo le ginocchia, all’undicesimo la tua testa contro la mia come se potessimo far risuonare insieme i nostri pensieri. Al primo mese erano le bocche a cercare un incastro tra pelle spaccata di labbra tumefatte, pellicine, denti che mordono, lingue imbarazzate che si ritraggono. Troppo presto, troppo in fretta.
Diamoci un po’ di tempo.
Va bene.

Al primo mese e due settimane affondavo già le dita nel tuo costato: ci sbocciava una foresta di vuoti e ombre. Tremavamo per esserci scoperte così tanto. E adesso.
Adesso non so stare sette giorni senza sfiorarti.
 
Quel giovedì si parlava di bagno d’amore mentre eravamo a chiacchiera nel bar della stazione di Santa Maria Novella e ancora non eri arrivata. I caffè della Feltrinelli tardavano ad arrivare, occupavamo quattro posti quando eravamo in dieci; i turisti e i pendolari sonnacchiosi neppure ci vedevano dietro le copie stropicciate del Panorama o della versione economica di un romanzo di Dan Brown, masticando gli uni con gli altri parole di una lingua che non si erano mai impegnati a imparare. C’era un muro di torpore e carta stampata tra i nostri occhi.
Si parlava di bagno d’amore e stavamo a discutere cosa fosse. È come acqua bollente che ti spella il corpo, è come l’oro fuso che gli indios facevano ingerire agli spagnoli durante le torture: prende forme che nemmeno ci immaginiamo. 
Se ne andarono tutti, chi in Capponi e chi in Brunelleschi. Rimasi sola al tavolo, le sedie d’improvviso vuote di senso e di calore, la tazzina macchiata del rossetto di un’amica e di residui di caffè. Li abbracciai uno a uno, cercando le loro anime dietro il costato per portarle via con me: erano troppo in profondità per afferrarle.

Il vuoto era così pesante in una stanza gremita di gente che ebbi voglia di urlare per riempire quelle assenze. Decisi di andare. Tu non eri ancora arrivata. La stazione non era mai stata così estranea. Le valigie mi cozzavano addosso come macchine autoscontro impazzite, i turisti con i sacchetti della Rinascente sbattevano in faccia il loro lusso contro il mio zaino azzurro cielo della Domyos. Mi avvicinai ai gate della stazione, con i controllori a guardia del portale infernale; le porte di vetro e metallo avrebbero dovuto suonare un allarme, in un progetto originario, ma adesso se ne stavano semplicemente lì, immobili nella loro solitudine di cancello di frontiera tra i mondi.
Non so perché mi aspettassi di trovarti lì, seduta sul tuo borsone color caffè dell’Eastpack, mentre sezioni con lo sguardo tutti quelli che passano, cercandomi. Non ti trovai e in qualche modo ne soffrii. Dove sei.
Ancora mi sentivo estranea in stazione straniera e i binari e la Feltrinelli che avrebbero dovuto tenermi ancorata a terra diventavano oggetti senza nome e contorno.
Da lì a tre anni ci trovavamo sempre di giovedì mattina ai gate della stazione per fare la strada insieme, tu verso l’Accademia, io nella mia Capponi; avevamo spesso da fare durante la settimana, entrambe si lavorava, entrambe ci si amava di nascosto dallo sguardo di famiglie che ancora non sapevano. Ma in quella stazione, in quelle strade cementate ci aggrappavamo l’una all’altra con le dita intrecciate, parlando come se non esistessero altro che quei quindici minuti di cammino per tutta la nostra vita.
Mi guardavo intorno nella piazza della stazione e mai era stata così vuota di te. Le mani che cercavano senza trovare alcun appiglio. Mi ero fermata proprio nel mezzo e i passanti mi urtavano scontenti, mi sospingevano di lato per passare, mi giravano intorno con occhiate gentili e infastidite; neppure vedevo che erano lì. I tabelloni avevano ritardi luminescenti che non riuscivo a decifrare.
Dove sei.
Si parlava di bagno d’amore. 
Come una doccia bollente. Come oro che scende giù per la gola. Ti impreziosisce, ti spoglia, ti rende piccola cosa sperduta in una piazza troppo grande per contenerti.
Il mio bagno d’amore mi arrivò addosso come uno scroscio improvviso d’acqua bollente ad afferrarmi per la vita, tirandomi a sé con violenza inaudita. Era più piccola e sottile di me, ancora non capivo da dove derivasse tutta quella forza che ci poteva sollevare entrambe. Mi trattenne. Io la trattenni. Le mani trovarono il loro appiglio nella carne, tra spazi ricurvi di ossa e ferite dell’anima che finalmente riconobbero il loro posto. Sentii la mia pelle tirare, le dita affondare, la mia anima trovare un rifugio nelle sue mani a conca.
Tutto sembrò di nuovo incastrato.
Eccomi.
Eccoti.
Scusa il ritardo, il treno si è fermato in mezzo al nulla per mezz’ora. Ti sono mancata?
Un po’. Ero con quelli di Lettere. Si stava parlando di un bagno d’amore. E adesso sei qui.

 

Playlist a cura di Alessio Cerasani (disponibile tramite Spotify) 


 

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Ultima revisione della pagina: 13/2/2019

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