Capita spesso che alcuni personaggi riescano, per una serie di fattori estremamente favorevoli, ad emergere e a stagliarsi al di sopra di altri con una forza dirompente tale da riflettere con la loro presenza le luci e le ombre di un'intera generazione. Capita appunto, e Kenneth Anger con Scorpio Rising ha centrato in pieno l'obiettivo. Assistiamo alla celebrazione di uno dei miti ormai consacrati della cultura americana anni '60, vale a dire il mondo che ruota attorno all'icona sacra, re-incarnazione artificiale della ribellione giovanile di quegli anni: la motocicletta. Nonostante già nel titolo primeggi la figura del protagonista, lo Scorpione, l'intera epopea americana proposta da Anger prende vita dall'attaccamento morboso che l'individuo dimostra verso le 'cose', verso l'artificiale, l'inorganico, verso la protesi. Lo Scorpione è l'incarnazione, e allo stesso tempo il veicolo più efficace, dell'ideologia americana che sta alla base del concetto del self made man: un'ideologia radicata profondamente nella cultura americana fin dalle sue origini, che vive una sua seconda vita nel cinema, con il genere western in primis. Ma quello che nel western rendeva l'eroe romantico tale era il suo attaccamento, la sua simbiosi con l'ambiente in cui agiva, i luoghi che attraversava: in fondo l'America non usciva mai di scena anche quando a primeggiare era l'individuo. Così anche in Anger si consacra un mito, si riscopre una nuova faccia di un'America che sta cambiando pur rimanendo ambiguamente nel solco della tradizione più conservatrice, quasi primitiva nella sua ritualità.
Ma l'opera di Anger va ben oltre, a mio avviso, proprio grazie alla consapevolezza del debito che il nuovo deve negoziare con il vecchio: illuminante in questo senso è l'uso del montaggio. È un montaggio che cattura elementi di per sé eterogenei (si pensi alla presenza di svastiche da un lato e a quella di Cristo dall'altro) che però diventano perfettamente omogenei se li si riconduce a una matrice comune, ovvero il loro essere irrimediabilmente segni, far parte di quello sconfinato immaginario collettivo condiviso e tacitamente accettato da ciascun individuo socialmente inserito. È la stessa operazione portata avanti dall'opera di Warhol e in generale dalla pop art: mettere in mostra, letteralmente in vetrina, la merce, la 'cosalità' intrinseca in ogni oggetto, aspetto, immagine, segno, persino situazione. Ma se da un lato il montaggio accarezza la fascinazione pop per il sex appeal dell'inorganico (la cura maniacale per la manutenzione della moto, il rituale della vestizione del protagonista) e la ripresa schizofrenica di icone culturali (Marlon Brando, Cristo, Nazismo), il tutto condito da una efficacissima ed estremamente funzionale colonna sonora, dall'altro in alcuni momenti sembra che tra immagine ed immagine si insinui dell'altro, sembra che qualcosa sia venuto meno all'improvviso oppure che si sia aggiunto inaspettatamente un elemento destabilizzante in grado di slabbrare la compattezza assicurata dal montaggio di cui si diceva prima. Destabilizzare. È proprio questo che secondo me premia l'opera di Anger: oltre al feticismo delle merci di matrice pop, oltre alla rappresentazione di una nuova ritualità primitiva insita nel moderno, oltre alla personale vicenda del protagonista c'è dell'altro, qualcosa che inevitabilmente sfugge, che inganna a tal punto l'occhio da costringerlo a 'guardare meglio' lo schermo perché si sente ingannato, in un certo senso profondamente violato. Un montaggio subliminale che strappa il velo di illusione, di assuefazione e di abitudine connessi al senso del vedere, per lasciarci accedere alla caduta di ogni sicurezza, alla vertigine del dubbio.
Martina Bartalini - ERBA magazine
Punto Giovani Europa