‘Non me la racconti giusta’… Ma a noi raccontatecela giusta e spiegateci dove e da chi nasce questo progetto itinerante per le carceri italiane che, dopo aver varcato la soglia della Casa circondariale di Ariano Irpino (Av), della Casa di reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi (Av) e della Casa circondariale di Rimini, e ha fatto tappa ad ottobre scorso a Sollicciano a Firenze con una serie di incontri che hanno messo in comunicazione il mondo ‘esterno’ con il microcosmo carcerario. Che obiettivi si pone e il perché della scelta di questo nome… ‘Non me la racconti giusta’… che messaggio volete far passare?
“Non me la racconti giusta” è una frase che viene utilizzata per esprimere diffidenza o sfiducia, allo stesso tempo contiene la parola “raccontare” così, dopo un lungo brainstorming, ci è sembra la frase giusta per racchiudere due concetti: la voglia di superare i pregiudizi legati al carcere e il tentativo di raccontare questa realtà.
Gli obiettivi sono proprio questi, da un lato riaccendere la discussione sul tema carcere che, a differenza di quello che molti credono, è un argomento che ci riguarda molto da vicino sia socialmente che economicamente, dall’altro portare tra le mura un progetto culturale, affidarlo ai detenuti e permettergli di gestirlo dall’inizio alla fine.
E il tramite tra mondo ‘fuori’ e mondo ‘dentro’ diventa l’arte, l’arte pubblica, con artisti d’eccellenza quali il Collettivo FX e NemO’s, che insieme ai detenuti svilupperanno alcune tematiche che verranno poi interpretate in un’opera muraria realizzata all’interno del carcere. Che approccio è stato messo in atto in fase di discussione delle tematiche da affrontare con i detenuti?
Quattro sconosciuti arrivano in carcere e pretendono di aprire un dibattito, di tirare fuori tante idee e di far diventare tutti degli artisti. È proprio difficile come sembra ma ogni volta portiamo a casa il risultato grazie alla scelta di un approccio non impositivo. Non si tratta, infatti, di un progetto calato dall’alto ma di un lavoro di squadra del quale tutti i detenuti sono responsabili e che gestiscono dall’inizio alla fine.
Nei primi due giorni ci riuniamo e cominciamo a rompere il ghiaccio spiegando perché siamo lì e quello che dovremo fare per portare a termine il lavoro.
Collettivo Fx e NemO’s creano un tavolo di lavoro per discutere i temi e definire il soggetto da realizzare nell’intervento. Tutti insieme, detenuti e artisti, decidono qual è il messaggio da inviare mantenendo, inoltre, un’ottica condivisa, quindi un disegno rappresentativo non solo per il gruppo coinvolto ma per l’intera comunità carceraria.
Che potenziale ha in questo senso l’arte urbana a livello culturale, sociale, educativo ma anche e soprattutto psicologico e terapeutico?
L’arte urbana, in questo contesto, risulta il mezzo ideale per diversi motivi. Innanzitutto, si tratta di lavoro fisico, manuale, il che risulta stimolante e gli permette di lavorare in sinergia. Non dimenticherò mai uno dei detenuti che dichiarava di riuscire a dormire bene in quei giorni perché finalmente andava a letto abbastanza stanco.
In secondo luogo, si tratta di una forma d’arte che molti dei detenuti con cui abbiamo lavorato non avevano mai sperimentato. Si avvicinano con timore ma poi prendono facilmente la mano, anche attratti dalla piccola trasgressione di dipingere sui muri.
Alla fine del progetto, inoltre, sulle pareti resta un messaggio pensato, elaborato e realizzato da loro, una grande soddisfazione che deriva dall’impegno e dalla capacità di trasformare un’idea in arte.
A differenza di molti laboratori artistici, in cui vengono impartite le nozioni per realizzare dei disegni realistici o gradevoli, nell’ambito di Non me la racconti giusta, la tecnica e il risultato estetico vanno in secondo piano, lasciando spazio ai concetti e alla capacità di esprimerli.
C’è sempre qualcuno che resta affascinato dall’arte urbana, c’è chi vorrebbe mostrare il muro ai figli, c’è chi passa le ore in cui non siamo con loro a elaborare nuove idee e ad abbozzare disegni. Prendono la cosa molto sul serio perché capiscono che stanno “parlando” attraverso un muro e che il progetto dipende soprattutto dal loro impegno.
È possibile attraverso l’arte e progetti di questo tipo modificare per un attimo l’agenda setting giornaliera delle notizie e ricanalizzare l’attenzione su questi luoghi e soprattutto su queste storie e persone che vengono quotidianamente considerati unicamente ‘contenitori’ e ‘contenuti’, ma che in realtà fanno parte integrante della nostra società? Come può il muro divenire fonte di bellezza e non barriera?
È quello che speriamo di ottenere, far parlare di detenzione, far parlare delle difficoltà che “contiene” il carcere e, magari, col tempo riuscire a stimolare altri progetti che abbiano un impatto positivo sui detenuti e creino nuove prospettive.
Il muro diventa un simbolo che rappresenta noi e il nostro lavoro, ma rappresenta soprattutto il lavoro di un gruppo di detenuti a cui probabilmente non cambierà la vita ma che gli avrà sicuramente insegnato ad avere fiducia nelle proprie capacità.
Gli incontri sono aperti alla cittadinanza? Come vi si può partecipare? Che valore aggiunto possono portare i cittadini del mondo ‘esterno’ a questi laboratori e cosa si porterebbero dietro ritornando nel mondo ‘fuori’?
Al momento non abbiamo coinvolto persone esterne, perché intendiamo il progetto come un piccolo cantiere più che come un evento partecipato, senza considerare le grandi difficoltà che sorgono ogni volta per ottenere i vari permessi. Di conseguenza, la comunicazione del progetto all’esterno diventa fondamentale per far conoscere i volti delle persone, per far capire le tante difficoltà che affrontano ogni giorno in una situazione di isolamento e spesso di mancanza di qualsiasi tipo di attività, e quelle che affliggono il sistema carcerario, bistrattato dall’opinione pubblica ma anche dalle altre istituzioni.
Dunque, parlarne, informarsi o proporsi per nuovi progetti, sono tutte ottime idee per dare un apporto. Cosa ci si porta fuori è nuova consapevolezza e sicuramente la soddisfazione di aver realizzato qualcosa di buono per persone che spesso hanno preso una strada diversa ma che sono esattamente come chi sta fuori da quelle mura.
L’esperienza o la frase più bella che vi portate dietro dalle prime tappe del progetto? Dove i rulli ed i pennelli del Collettivo Fx e di NemO’s porteranno il progetto dopo Firenze?
Le storie e gli aneddoti dei detenuti variano dal drammatico al surreale. Non ti nego che per noi, oltre al peso di “sperimentare la loro condizione”, l’esperienza in carcere è sempre molto divertente.
Si parla molto di noi, di loro, del carcere e spesso vengono fuori storie e aneddoti che è difficile dimenticare. Tra quelle che ci sono rimaste più impresse la vicenda dei tre detenuti ucraini che, dal fare i pescatori, un giorno si erano trovati a trasportare profughi e, nonostante fossero in Italia da quattro anni, nessuno di loro l’aveva mai realmente vista.
Oppure quella di un detenuto appena maggiorenne che aveva trascorso la sua ancora breve vita tra esercito e carcere. Quella delle due detenute trans che vivono l’isolamento nell’isolamento a causa di un sistema ancora non adeguato alla loro situazione di donne gestite come uomini. E, ancora, quella di un uomo che aveva salutato la tossicodipendenza per riuscire finalmente a rimettersi in carreggiata, recuperare il rapporto ormai perso con suo figlio e trovarsi a scontare una pena per reati di dieci anni prima. Il falsario che si sentiva un artista. Un ragazzo che mi ha confidato di come il carcere gli abbia aperto gli occhi e gli abbia dato il tempo per riflettere su se stesso e su quello che vuole davvero.
Un po’ meno… e un po’ più… Come completereste questa frase?
Sembra facile rispondere ma non lo è. Il carcere è un sistema complesso e, nonostante siamo alla quinta esperienza, è davvero difficile esprimere dei verdetti.
Tuttavia, direi:
Un po’ meno pregiudizi e un po’ più consapevolezza.
Franceska Nieri - ERBA magazine
Punto Giovani Europa