“Sai perché questo è il mio albero preferito?
Perché?
Perché è caduto, ma sta crescendo ancora."
Dopo il suo rivoluzionario Tangerine, Sean Baker passa da una fiaba urbana all’altra, regalandoci un nuovo tranche de vie: The Florida Project è arrivato sugli schermi italiani nel 2018, sotto il nome di Un sogno chiamato Florida, titolo infedele ma non inadatto al mood e all’ironia della pellicola.
Difficile estrapolare una trama univoca, in questo giro di vite: in un motel adibito a casa popolare nella periferia di Orlando, a due passi dal Disney World Resort, seguiamo il punto di vista di Halley, giovane e ribelle mamma single, e di sua figlia Monee.
Durante il loro summer break conosceranno un microcosmo di umanità, tra cui spicca il grande Willem Defoe, che troviamo nei panni dell’altruista e provato gestore del motel.
Così nella Florida onirica ma spietatamente reale del titolo, l’estate, da sempre teatro di riti di passaggio, diventa un personaggio della storia: la sua afa, come in un incantesimo, intrappola ogni strada sotto una luce sognante e nuova.
Baker ci regala un gioiello del nuovo cinema indipendente americano, costruendo una messa in scena basata sui contrasti: il rosa sgargiante delle pareti e l’apparente squallore delle vite che le abitano, l’angoscia e la magia (metafora della spensieratezza), le contraddizioni della città tra il lusso delle attrazioni turistiche e la povertà dei quartieri popolari, il mondo adulto e quello dell’infanzia con le loro affinità e divergenze.
Una regia sperimentale che si serve una fotografia saturata e malinconica, di dialoghi minimali ed estremamente realistici, di scene improvvisate e altri espedienti formali da cinéma vérité.
Il film rimane, primariamente, una storia di formazione poiché la telecamera di Baker racconta senza voyeurismo né idealizzazione uno spicchio di vita verosimile, che ci sfida a mettere in dubbio il nostro sguardo sulla quotidianità.
Agata Virgilio - ERBA magazine
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