In previsione dello spettacolo La ballata del vecchio marinaio, Officina Giovani ha intervistato Ciro Masella, regista della compagnia Uthopia - Associazione culturale di promozione sociale.
Lo spettacolo rientra nella rassegna teatrale Ex-Temporaneo e si terrà negli spazi artistici di Officina Giovani venerdì 29 novembre 2024 alle ore 21.00.
Uthopia è un’associazione culturale e di promozione sociale che da diversi anni si occupa di creazione e produzione di eventi, reading, spettacoli e opere video, di formazione, organizzazione di festival di danza, musica e teatro, laboratori di teatro, ma non solo (abbiamo infatti attivato da alcuni anni un progetto di educazione sentimentale e digitale, in collaborazione con psicologi e pedagogisti, rivolto alle scuole). Ci occupiamo di promuovere la Poesia, il Teatro, la Danza, l’Arte. Lavoriamo principalmente sulla drammaturgia contemporanea (su e con alcuni dei più importanti drammaturghi contemporanei italiani - Stefano Massini, Oscar De Summa, Emanuele Aldrovandi, Francesco Niccolini - e internazionali), ma non solo. Abbiamo collaborato e collaboriamo con diverse Università, Accademie e scuole di recitazione, Centri antiviolenza e per le Pari Opportunità. Questo, e tanto altro, è Uthopia.
Per il duecentocinquantenario della nascita di Samuel Taylor Coleridge e il centenario della nascita di Beppe Fenoglio, nel 2022 abbiamo voluto celebrare questi due giganti della letteratura con l’opera che li ha visti “uniti”, uno autore e l’altro traduttore: quella Ballata del vecchio marinaio, divenuta una sorta di manifesto della poesia romantica inglese. Questa doppia celebrazione è stata l’occasione per affrontare una delle vette della produzione poetica di tutti i tempi e celebrare al contempo Beppe Fenoglio che l’ha magnificamente tradotta. Conoscevamo e amavamo Fenoglio autore, abbiamo imparato ad apprezzare anche il Fenoglio traduttore, col suo stile personalissimo e inconfondibile.
A mio avviso, la Ballata non può, trattandosi di Poesia, essere recitata, cioè messa in scena come un testo di prosa con i personaggi e le azioni sceniche. È un Poema. Sono versi, magnifici, e possono essere detti, attraversati: ed è il motivo per cui io mi limito, assieme ad Eugenio Nocciolini, a dare voce a quei versi sublimi, cercando di restituirne l’andamento, il significato e il significante, il suono, le melodie, il ritmo. Alessandro Luchi ha costruito dei paesaggi sonori che gli sono stati ispirati dalla mia lettura integrale, ha lavorato su una prima registrazione in voce che avevo fatto dell’intera Ballata, si è lasciato suggestionare dalle immagini che quei versi gli evocavano, dalle visioni che gli suggerivano sia i versi che la lettura, il modo in cui suonava la mia voce. Ha inoltre creato delle “bolle” in cui ha amplificato alcune di queste suggestioni, immaginando che sarebbero state consegnate alla sensibilità di Isabella Giustina prima e Beatrice Ciattini poi, le danzatrici che si sono avvicendate sul palco assieme a noi, che si sono lasciate a loro volta suggestionare dall’ascolto del poema e poi dalle musiche. A quel punto le danzatrici hanno iniziato ad abitare quei paesaggi sonori, ad interagire con quelle sollecitazioni e a sviluppare le suggestioni del racconto. Il lavoro che facciamo in scena, noi voci recitanti, il musicista e la danzatrice - è strettamente connesso, l’uno generante l’altro, e in un certo senso nuovo ogni replica. Siamo più che sullo stesso piano, cerchiamo di essere un corpo unico che vibra di parole, suoni, musica e gesto.
I versi sono talmente belli, così perfetti e assoluti, che ci pensano loro ad affondare nelle carni e nell’animo di chi li legge, li dice, e di chi li ascolta. Il lavoro di ciascuno di noi - voci, musica, danza - è stato quello di entrare il più possibile nelle pieghe recondite di questo misterioso e magnifico oggetto poetico. Con rispetto, in ascolto, col cuore aperto. Abbiamo intrapreso un viaggio, che ripetiamo tutte le volte in cui torniamo in scena. Anche noi saliamo su quella nave e percorriamo lo stesso viaggio del vecchio marinaio.
Io, che da regista ho messo in scena solo autori contemporanei, sono convinto che i classici non hanno tempo, continuiamo a interrogarli da centinaia di anni perché ci ripropongono con forza le domande che gli uomini di ogni epoca si sono fatte. Sono opere che continuano a parlarci con una forza incredibile, con una modernità che spesso supera quella della drammaturgia contemporanea, che pur amo e frequento spessissimo. Secondo me non esiste un teatro classico e un teatro contemporaneo, esiste un teatro che parla al cuore e alla testa degli uomini e delle donne seduti in platea, che li rende partecipi dell’atto creativo, che li coinvolge, che ne stimola l’immaginazione, che riesce a trasportarli in un altrove, che sposta il loro punto di vista; poi c’è un teatro che annoia o nel migliore dei casi - cosa preziosa anche questa - intrattiene; c’è un teatro fatto bene oppure no, un teatro vivo, vitale (mutuando le parole di Peter Brook) e un teatro morto, mortale. Riguardo al messaggio, poi, lo stesso Coleridge diceva che la morale di quest’opera è tutta racchiusa nelle ultime strofe. Vanno lasciate risuonare, quindi, per sintonizzarsi con quel messaggio che l’autore ha voluto racchiudere in un’opera che dispensa bellezza e stupore continui. Il poeta scrisse, inoltre, che per intendere questa poesia era necessaria una “deliberata, cosciente sospensione dell’incredulità”. “Incredulità intesa come rifiuto di accettare l’elemento soprannaturale, l’angoscia dell’inconscio, il rapporto che lega l’uomo al cosmo, il tentativo di ricostruire una relazione interrotta, un cerchio spezzato. La verità, per essere scoperta, va seguita chiedendo soccorso alla fantasia, all’immaginazione che sola consente di afferrare la natura autentica dell’universo. Qui l’immaginazione si indentifica con la Poesia, lì dove il marinaio potrebbe essere il poeta stesso e l’albatro il dono dell’ispirazione.”
Ciascuno di noi può sentire vicinissimo questo uomo che uccide gratuitamente la bellezza, qualcosa di sacro, di puro, e che poi dopo aver toccato il fondo del rimorso e della pena, dopo aver espiato il suo errore, riesce a vedere con occhi nuovi e a gioire dell’invisibile, di quel sacro che non aveva visto, riconosciuto e rispettato nell’albatro. E torna alla vita, con la certezza però che sarà una vita di peregrinazioni, alla ricerca di suoi simili a cui raccontare la propria storia, con cui condividere il suo viaggio e la sua esperienza, di morte e rinascita.
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Intervista a cura di Malaika Benedetta Sorace, volontaria in Servizio Civile a Officina Giovani.
Punto Giovani Europa - Informagiovani del Comune di Prato