Atmosfera calda, luci monocromatiche, palcoscenico essenziale: questo lo scheletro de La buona novella proposta da David Riondino al Teatro Metastasio di Prato, dopo 39 anni dalla pubblicazione dell'omonimo LP di Fabrizio De Andrè interamente ispirato dalla lettura dei Vangeli apocrifi.
Protagonista è stata dunque la musica, la poesia del cantautore genovese che ha trovato espressione a Prato nelle voci dei cori, in quelle dei due solisti, ovvero l'artista fiorentino e la sorella Chiara, e nella banda itinerante, da sei anni in giro per la penisola a portare il profondo messaggio di uno dei più grandi capolavori della musica italiana, palese dimostrazione del genio del suo autore.
Prima della presentazione dei dieci brani che compongono l'opera, lo spettacolo ha avuto inizio con la contestualizzazione di quest'ultima negli anni settanta, nel pieno della contestazione studentesca e delle lotte di classe; se ne sono anche analizzati gli aspetti contenutistici, la sua dislocazione del tutto sacra in quanto racconto della vita di Maria, di Giuseppe, di Gesù di Nazareth.
Come conciliare le due allora, come accostare il sacro col profano in una stessa medaglia? Quando fu posta questa domanda a Fabrizio De Andrè egli rispose che non vi è stato uomo più rivoluzionario di Gesù Cristo, un uomo che ha dato la vita per salvare chi poi tanto brutalmente l'avrebbe tradito. Ed era un uomo, prima di tutto.
Questo il punto cardine di tutta la rappresentazione: l'antropologizzazione delle figure dei vangeli, spiate e raccontate nella loro vita più umana. E così, ne Il sogno di Maria si assiste ad una descrizione terrena del concepimento, molto diversa da quella che si presenta nei Vangeli canonici. Ed è ancora una maternità sanguigna, temporale, a piangere sotto la croce del figlio. «Non fossi stato figlio di Dio, t'avrei ancora per figlio mio», frase lapidaria e sentenziosa, frutto della constatazione della pericolosità del genere umano, della sua ignoranza, codardia e cecità che l'ha portato a seviziare il germe di Dio. Di questo corpaccio se ne sentono le voci nella Via della croce, le fruste, i brividi di soddisfazione.
«Non sono stupiti a vederti la schiena piegata dal legno che a stento trascini, eppure ti stanno vicini». Esso si trova ad essere eccezionalmente raffigurato sul palco dai cori, eterogenei per età e così perfetti campioni di una ideale popolazione, che dalle terre sacre di migliaia di anni fa viene direttamente proiettata all'interno delle mura pratesi. L'anello iniziato con un inno alla Signore, si chiude con un Laudatem Hominem a suggellare l'avvenuta umanizzazione del Cristo.
La solennità dei contenuti tuttavia, non è stata sempre supportata dall'adattamento della banda che spesso ha attribuito ritmi veloci a partiture estremamente lente; che ha fatto rapidi schizzi di scene pregne di significato meritevoli di maggiore attenzione. Anche la scelta di affidare la maggior parte dei brani ad una voce femminile è stata la risposta alla volontà di rielaborazione dell'opera, perchè non si proponesse come imitazione bensì come emulazione e reinterpretazione del testo madre. Tutti però dovremmo ricordare: difficile è eguagliare il maestro, impossibile se questo si chiama Fabrizio De Andrè.
Nadia Maccarrone - ERBA magazine
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