La stagione jazzistica del teatro Metastasio di Prato si è aperta con un gruppo-rivelazione del tutto innovativo e forse per questo apprezzabile solo dai buoni cultori del genere.
Infatti se vi aspettate un jazz arrabbiato e frenetico come quello di Mingus oppure caldo, esuberante e melodico in stile Parker, avete sbagliato appuntamento.
Il trio newyorkese Fieldwork si compone del sax di Steve Lehman, dal piano di Vijay Iyer e della batteria di Tyshawn Sorey. Già da questa presentazione si avverte quanto la loro musica ed il loro stile possano essere variegati e colorati, in quanto frutto di un lavoro di collaborazione di elementi provenienti da realtà spaziali e sociali così lontane come gli Stati Uniti e l'India.
Lo sperimentalismo della band si snoda fra improvvisazione e rigore compositivo, fra febbre creativa e precisa scelta di spartiture e melodie; il prodotto risulta difficile da comprendere al primo ascolto in una visione globale ed organica dell'esecuzione, mentre, se l'attenzione viene focalizzata solo su uno dei musicisti, è più immediato percepire l'effettiva qualità di un suono ben costruito.
L'impressione che uno sprovveduto spettatore può avere all'ascolto è quella di un gruppo disomogeneo e scordinato: seppur capaci presi singolarmente, non vi è armonia fra gli elementi, di cui sembra di vedere uno spaccato di vita che li ritrae in un momento di prove individuali. Il risultato è innaturale, sforzato, ossessivo nella corsa alla novità, al pezzo da copertina. Cacofonia, parola dura e impegnativa, ma forse necessaria per descrivere alcuni momenti dello spettacolo sicuramente sconsigliato a chi soffre di emicrania.
Nadia Maccarrone - ERBA magazine
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