Dal 17 al 21 di febbraio, al teatro Metastasio è andata in scena la commedia Le Nuvole di Aristofane, vissuto nell'Atene del V secolo a.C. , per la regia di Antonio Latella.
Lo spettacolo è stato una vera e propria miscela tra teatro contemporaneo e antico; di fatto anche il numero degli attori si è limitato a quattro, proprio come succedeva nel teatro greco. Latella, se pur seguendo la trama originale, ha inserito congetture scenografiche e dialogiche che non possono che farci interpretare questa commedia sotto una luce attualissima.
Protagonisti della commedia sono un padre e un figlio, i cui averi sono stati tutti sperperati da quest'ultimo a causa della passione per i cavalli. Fidippide (il figlio), rappresenta oggi come allora uno dei tanto chiacchierati "bamboccioni", non a caso è impersonato in molte scene non da un attore, ma da un vero e proprio pupazzo! Strepsiade (il padre), per sfuggire dai debiti, giunge alla conclusione che solo con l'aiuto dei sofismi filosofici sarà in grado di far diventare il suo discorso da peggiore, a migliore, di modo da ingannare i creditori e non doverli più pagare. Decide quindi di andare dal massimo filosofo ateniese: Socrate.
La figura di Socrate, nello spettacolo di Latella così come nella commedia antica di Aristofane, non rappresenta la reale figura del famoso filosofo, ma piuttosto un genere, tanto presente nella Grecia antica quanto nell'Italia di oggi: il demagogo, il portatore di nuove false speranze, il ciarlatano che grida in piazza promesse e progressi.
Anche l'ambientazione in cui si trova la scuola del filosofo è singolarmente significativa, una casa con una minuscola porta, minuscola come le possibilità conoscitive dell'uomo comune; al di sopra di essa le nuove divinità che Socrate invita a glorificare: le nuvole.
Le nuvole sono idee, in quanto hanno la stessa consistenza, la stessa mancanza di forma, ma quando entrano in scena, quando si tenta d'interrogarle, queste sono già morte, scarnificate: le nuvole di Latella sono scheletri.
Dopo aver deciso di portare anche il figlio da Socrate, Strepsiade, assiste a un'esilarante disputa tra le personificazioni del discorso giusto e del discorso sbagliato. Il discorso sbagliato, così come la demagogia in genere, ha la meglio. Ironia della sorte, anche Fidippide batte il padre in una sfida sofistica, giungendo a farlo ammettere che è diritto dei figli picchiare i propri genitori.
In conclusione i creditori non si fanno ingannare al processo e Stepsiade, ormai rovinato, decide di dare fuoco al pensatoio di Socrate. Distrutta la dimore delle nuvole, delle idee, della razionalità, gli uomini non possono che tornare bestie furenti e la nostra Povera patria, come canta nel finale la canzone di Battiato, non può che restare lì, inerme, a guardare quel grottesco essere che è l'uomo, il cittadino abbindolato, l'elettore ipnotizzato ai comizi politici, il borghese medio che investito dalla crisi economica s'indebita fino al collo.
Un plauso va obbligatoriamente agli attori, i quali hanno fatto ridere con le loro gag il pubblico per più di due ore, interagendo spesso con gli spettatori. Belle le scenografie e intelligente l'uso non solo del palcoscenico, ma anche di altre zone del teatro come i palchi e corridoi. Divertente e interessante a un tempo.
Giacomo Cecchi - ERBA magazine
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