Uomini di Dio (Des hommes et des dieux) è un film privo di profondità che si lascia comprendere fermando lo sguardo in superficie. Questo non perché la superficie nasconda il vuoto: la leggerezza dell'immagine, iconica e insieme realistica e quotidiana, sembra anzi attirare su di sé l'attenzione per permettere di assimilare meglio parole, pensieri, un senso che riemerge solo a visione conclusa. Per tutto il tempo siamo cullati in una semplicità che non impone domande, eppure lascia intuire la densità e il valore infinito di quelle che potrebbe sollevare.
Tentando un percorso a ritroso incontriamo particolari mai notati prima. Accade così che nella sobrietà luminosa del monastero, in cui niente è superfluo e ogni presenza si giustifica nell'economia e nell'estetica dell'insieme, il mappamondo sulla parete sembra un simbolo rivolto a noi: solo adesso, mentre i monaci analizzano ragioni e motivi di fronte a un mondo di carta, viviamo con loro la sensazione di essere fuori da quel mondo.
Prima questa estraneità non esiste: la comunità dei monaci, con la sua semplicità, i suoi riti quotidiani, il suo senso del lavoro e della condivisione è davvero "il ramo su cui si posa il villaggio". Tutto è polifonia. Il canto gregoriano, molto più che una somma di voci, è la metafora viva di una comunità che prima di tutto (prima dell'integralismo, prima della paura) "è un corpo e un'anima": l'armonia, in cui ogni voce è necessaria al suono d'insieme, è la figura di un equilibrio fondato proprio sulla diversità, unico e sempre nuovo.
Ci sono differenze tra i popoli, ci sono le differenze nel monastero: l'attaccamento alla vita di Amedeé, la carità e la forza di Luc, la passione tormentata di Christophe, l'inquieto senso di responsabilità e la fiducia nella conoscenza di Christian.
Il film, all'inizio, è quindi la storia di un incontro e di una convivenza che non sembra giusto definire "pacifica", perché per la gente di Tibirhine convivere non richiede una scelta tra pace e guerra: è una condizione naturale, a-problematica, che all'improvviso invece deve essere difesa e giustificata di fronte a chi si impone dall'esterno come nemico.
Il cammino condiviso diventa così un inseguimento in cui il vero pericolo non è tanto rinunciare, cadere, quanto l'alienazione: dimenticare che non c'è un traguardo lontano da raggiungere ma una partenza, un linguaggio comune da riconquistare.
La risposta alla fine non può essere che la scommessa su una verità che sembra lì da sempre ma solo alla fine, solo insieme diventa chiara, senza parole. La verità è che "i fiori non possono sradicarsi da terra per cercare il sole". Se i monaci decideranno di restare non sarà per ostinazione, né per sfida o per dovere, ma per amore: un amore che non chiede martiri, ma testimoni, custodi della fragilità che è "l'espressione di una realtà fondamentale del nostro essere".
Nel loro sacrificio non c'è nessun atto eroico contro il destino, nessuna solennità elitaria: la musica che li celebra durante l'ultima cena viene dal mangianastri di Luc, che arriva in ritardo portando con sè il vino e una dolce ironia che sottrae la scena ad ogni retorica. Nella carrellata di ritratti cade ogni distinzione tra coraggio e paura, tra il sorriso degli dèi e il pianto degli uomini: si scioglie nella musica, nel crescendo che fonde la leggerezza degli archi e la gravità dei fiati di Tchaikovsky (cos'è il Lago dei cigni, metafora umile e profana, se non la storia di un amore che vince la morte?).
In quei sorrisi c'è la neve pietosa che copre i cadaveri, c'è il testamento di Christian che chiede la memoria fedele di una morte innocente, la fiducia che dopo la morte ci sia l'amore più grande e ancora sconosciuto.
Il film, la musica, il testamento sono una cosa sola: il tentativo di allargare quella comunità fino a comprendere anche noi, chiamandoci a testimoniare, facendo sentire che in questa testimonianza ne va della vita, del mondo, della pace come "migrazione da una nascita all'altra".
Alice Giuliani - ERBA magazine
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