Che rumore fa il silenzio? Su questo paradosso sembra giocare la performance evocativa e umoristica del Teatrificio Esse.
In apparenza i protagonisti sono i corpi, la mimica realista o espressionista delle trovate sceniche che oscillano liberamente tra tensione drammatica, ironia e comicità. I veri attori invece sono i rumori: quelli che accompagnano la rappresentazione oppure la sovrastano, la raccontano o la deformano, ne fanno iperbole, paradosso, provocazione.
Il sonoro è stato il mezzo che ha consolidato l'idea di cinema come delegato del reale, di quel "solito" in cui già da sempre siamo immersi e che perciò sarebbe chiaro, comprensibile, solo da evidenziare. È difficile accorgersi che questa distanza diventa incolmabile quanto più sembra scontato averla superata, che la realtà non è tanto più una consapevolezza per noi di quanto lo è l'acqua per i pesci.
Sul palco va in scena anche questa estraneità: la didascalia sonora è una guida che gioca a spiazzarci, una comunicazione che ci sfugge di mano e infine ci abbandona. Dal "solito" alla solitudine è tutto uno sbattere di porte, possibilità che si chiudono e aprono uno spiraglio su un'uscita obbligata nel buio che ci prende a calci e pugni.
Mentre gli applausi diventano pioggia, mentre il tempo di un uomo trascorre tra la festa, le bombe e i tumulti dei sensi, in una successione di passi impercettibili, diventa chiaro che i rumori come i passi si fondono, si compenetrano in un continuum uniforme, sanno diventare indistinti. O forse, sono da sempre un tutt'uno, e siamo noi che a fatica li dividiamo e ne facciamo un linguaggio: per non diventare sordi, per non annegare, per non farci ingoiare.
Ma da cosa dovremmo essere sommersi, ingoiati? Da dove proviene questo rumore assordante eppure inavvertito? Questa è la suggestione che ci conduce dalla leggerezza all'angoscia in ogni "quadro" dello spettacolo, che si apre sul nulla e alla fine è assorbito dal crescendo dello 'sfregolio' che proviene dalle casse.
Questa amplificazione muta, questa sonorità senza suono, sembra rivelare la stessa presenza del vuoto: il rumore dell'attesa tra un passo e l'altro, la voce che denuncia un corpo frantumato, inerte e incerto, lo mette a nudo, lo incita a liberarsi dalla ruggine di vecchi rituali ripetitivi e a riappropriarsi di gesti autentici.
Sembra davvero che alla fine il vero protagonista sia quell'unico rumore, continuo, indistinguibile che ci avvolge e che di solito si chiama silenzio. Il suono del tempo che scorre, di una battuta o di una pausa inaspettata, di una parola mai detta che all'improvviso ci cade di bocca. Leggero e pesante come un piuma.
Alice Giuliani - ERBA magazine
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