La bellezza del somaro

Il film di Sergio Castellitto

 
cinemamagazine.it

 
Il grottesco è uno specchio deformante che racconta una disperazione dimenticata e mistificata. La sua violenza colora a tinte forti gli aspetti realistici, trasferisce lacerazioni profonde in una pantomima di contrasti esteriori, gesti enfatici, espressioni stilizzate. Di fronte a personaggi privi di un'emotività autentica, l'immedesimazione si ferma in superfici. Quello che vediamo è una minaccia ma anche un'astrazione rassicurante che ci mete in mano i fili delle nostre bassezze, inevitabili, pesanti, eppure inerti come marionette. L'amarezza semmai risiede altrove: forse nel fatto che il grottesco offre l'illusione di un distacco, la possibilità della parodia, ma non una speranza di cambiamento.
 
Ne "La bellezza del somaro" il grottesco (leggero) è lo scudo di una borghesia sinistroide, vittima della propria deformazione patetica. I suoi rappresentanti annaspano nella parodia di antiche rivendicazioni mai davvero assimilate, ridotte ad evasioni estemporanee oppure congelate nella vita interiore. Sono paladini di una libertà svuotata, appiattita sull'indifferenza del "tutto è lecito", su una "toller-ansia" omologatrice che ha trasformato i muri in specchi e ha cancellato persino l'esigenza delle domande.
 
Tutti scontano le loro contraddizioni nella prigione (comica) che li separa dai figli: figli temuti, odiati e "ammirati", figli-genitori che devono concedere e assolvere, investiti della stessa autorità contro cui quei genitori, quelli veri, si sono ribellati. L'emancipazione anti-autoritaria si rovescia così in una pantomima appiccicosa e smielata: l'unica autentica 'tolleranza' è quella di Rosa, il 'nuovo' che incombe come un punto interrogativo, l'outsider che accetta di stare al gioco e ancora non sa di avere la forza e la responsabilità di rovesciarlo.
 
Sul registro grottesco si innesta però uno sviluppo narrativo che apre, costruisce, e non si limita a riflettere. Il punto di innesto è lo psicodramma collettivo che va in scena nella casa di campagna, in cui incarnano le ossessioni, i rancori, le paure, i desideri di fuga. Lo scopo: far emergere la fragilità irrisolta nascosta dalla superficialità ottusa, far precipitare le domande che aleggiano sopra ridicole schizofrenie (la casa governata dalla dittatura della colf, le vacanze ecologiche, le trasgressioni impacchettate a parte).
 
Tutto potrebbe risolversi in dramma, in tragedia, se non fosse per l'intervento del surreale, che dirotta la vicenda sul binario dell'ironia, incide le crepe su cui crolla l'impalcatura ma offre anche un appiglio per non farsi travolgere.
Il paziente mitomane che imbraccia la falce, il somaro che lentamente si avvicina fino ad occupare la casa devastata, sono i simboli facili di questa implosione. L'appiglio è il sorriso misterioso di Armando, che lento, impercettibile e inesorabile (come la vecchiaia?) compare al centro della scena, fino ad allora occupato da maschere ghignose e follie tristi. L'impossibilità di incasellarlo costringe a fare i conti con il tempo, con la vanità delle strategie di difesa, con la possibilità di una diversa prospettiva. Il suo sorriso non appartiene né a un folle né a un dio, ma all'uomo: l'uomo che alla fine del tempo si volta ad abbracciare la vita, l'uomo capace di meraviglia, convinto che il cuore sia come un pianeta. Nessuna nostalgia del Capo Apache, nessuna fuga utopica nell'al di là, nessuna condanna o assoluzione: la sua presenza è un invito a riconquistare la realtà autentica, a chiamare di nuovo le cose con il loro nome.
 
L'addio a Rosa diventa un passaggio di consegne, l'incontro tra due diverse solitudini, consapevoli di condividere lo stesso segreto e un diverso destino. Commovente, potente, perché finalmente qualcosa accade. Non servono più espedienti narrativi: il loro dialogo è trasparente, è il ritorno alla realtà, alla grazia e alla semplicità di una libertà autentica.
Visto in questa luce, l'intenzione del finale va oltre un facile e pacificante moralismo: come a dire che l'ultima parola non è la spoglia verità nascosta dall'ipocrisia, che il dito che indica la luna invita a guardare la luna e non il dito. Una visione tragica, si direbbe, in cui i limiti e le contraddizioni disegnano la strada e aprono una via d'uscita: un orizzonte poetico che abbraccia e avvolge l'esito grottesco di un'umanità svuotata, strisciante, ma ancora capace di cambiare pelle.



Alice Giuliani - ERBA magazine
 
Punto Giovani Europa

Ultima revisione della pagina: 27/6/2016

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