L'immediatezza con cui in un film tutto sembra accadere spontaneamente è il potere e insieme il limite del cinema rispetto al teatro: il linguaggio cinematografico è più complesso della finzione scenica, eppure per la sua esplorazione non sembra necessario lo stesso apparato culturale. Per quanto un film possa avere un'impronta 'drammatica', le due esperienza restano distinte.
Frears riesce nella strana impresa di mettere in piedi un film molto teatrale: non per i dialoghi o per il ritmo da commedia alla Wilde, né per i toni e risvolti tragicomici, ma perché i protagonisti sembrano piombare in scena su un palco già allestito, sul quale all'improvviso si trovano a interpretare se stessi, diventando personaggi. Non c'è però uno sguardo corale a dirigere il gioco, non c'è un senso complessivo da raggiungere o a cui rinunciare: personaggi e spettatori sono catapultati in un vortice che sembra generato dagli eventi stessi e scivolano nella vicenda senza resistenze.
Tamara Drewe d'altra parte è anche un film-fumetto. Non tanto perché è tratto dal fumetto omonimo, ma perché i personaggi vivono dentro figure stilizzate che danno loro l'agilità necessaria per muoversi nella storia. Il vero paradosso però è che questa storia, in cui l'inverosimile è determinante, in cui gli eventi decisivi sono l'opera sconsiderata di soggetti caricaturali (il musicista idiota e vanitoso, la ragazzina fanatica...) è anche il luogo in cui le figure acquistano spessore, diventano vive, reali.
Essere in balìa del contingente permette ad ognuno di emergere dalla vicenda senza bisogno di riprese in soggettiva, introspezioni o didascalie. La giostra degli eventi non schiaccia i personaggi: li travolge, li espone all'imprevisto e insieme solleva ogni carattere dal suo stesso peso, ostacolando ogni esito patetico.
Di fatto, è la giostra stessa che decide i protagonisti. L'intera narrazione si gioca sull'incontro tra tre Muse (femminili) ispiratrici: una Musa per forza (Jody); una Musa inconsapevole conquistata da un goffo ammiratore (Beth); una Musa che ammalia e conquista, quasi suo malgrado (Tamara).
Neppure le Muse d'altra parte possono manovrare il gioco, ma soltanto partecipare.
Nessuno se ne rende conto, forse eccetto Tamara: il momento in cui dice "non so perché faccio queste cose" potrebbe suonare come la malinconica confessione di un interprete che all'improvviso, tragicamente prende coscienza di essere lì, protagonista e regista inconsapevole di una storia che non conosce. Un disegno dunque, riempito di desideri e ragioni dalla matita che ha disegnato l'auto gialla della sua entrata in scena: la stessa matita che racconta il suo passato, facendosi aiutare dagli scrittori (o aspiranti tali) che popolano il film.
In effetti, il vero motore degli eventi, il vero protagonista del film potrebbe essere proprio la scrittura: perché molti personaggi la praticano (e la predicano) per mestiere, perché è da una falsa email che si propagano gli eventi, ma soprattutto perché con la scrittura è l'immaginazione stessa che nel film si racconta e un po' si prende in giro. L'incontro tra i personaggi diventa un confronto tra diversi modi di muoversi tra realtà e fantasia: c'è chi ha relegato l'immaginazione in un mondo di carta (pesta), "lontano dalla pazza folla", e ne farà le spese; chi vuole incollare le foto patinate del rotocalco sulla realtà sbiadita; chi pretende di confinare il proprio passato in un'autobiografia e vorrebbe che tutto accadesse per finta, senza residui, senza conseguenze reali.
Così, tra un mondo di carta imprigionato nella propria ipocrisia e un mondo dello spettacolo votato al ridicolo, Andy rappresenta il personaggio sulla soglia, che sembra lì da sempre, da prima, come la terra su cui lavora. L'unico con cui le Muse possono tornare ad essere donne, l'unico per cui è possibile scendere dalla giostra, abbandonare il palco, chiudere il libro.
Alice Giuliani - ERBA magazine
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