La mostra "L'arte di gesso: La donazione Jacques Lipchitz a Prato" è allestita, fino al 26 maggio, all'interno del Palazzo Pretorio di Prato. Questo venne costruito nel 1284 e chiuso nel 1998 per lavori di restauro; alla riapertura al pubblico del Palazzo coincide l'inaugurazione della mostra.
Due sono le domande che sorgono spontanee: chi è Lipchitz? Perché e da chi sono stati donati i suoi bozzetti in gesso a Prato?
Partiamo dal rispondere alla prima domanda. Jacques Lipchitz (1891 - 1973) è uno scultore nato in Lituania e trasferitosi nel 1908 a Parigi, dove entrerà in contatto con i grandi artisti, cubisti e non, della sua generazione; solo per citare alcuni nomi ricordiamo Fernand Léger e Pablo Picasso.
Il viaggio di Lipchitz nel mondo dell'arte riparte dal mondo antico. Un esempio di primi lavori è l'opera "Scena mitologica", bassorilievo in gesso del 1911, dove si nota l'influenza dell'antica arte degli Sciiti, che l'artista aveva avuto modo di osservare al Museo dell'Hermitage.
Ma questa fase di ritorno all'arte primitiva verrà superata (come fatto da altri artisti cubisti, vedasi Braqué e Picasso) fino ad arrivare alle prime opere cubiste, come "Arlecchino con il mandolino" del 1920 o "Strumenti musicali" del 1924, entrambe sculture in gesso patinate.
È con l'opera "Ritorno del figliol prodigo" del 1931 che si assiste ad un profondo cambiamento nel lavoro dell'artista, che passerà a creare opere fortemente influenzate dagli echi del surrealismo. Le particolarità di questa opera sono due: in primo luogo è la madre ad accogliere il figliol prodigo; inoltre nei lavori di Lipchitz iniziano ad avere un peso notevole i vuoti (scusate il gioco di parole). Vuoti da cui attingerà anche Moore, autore caro a Prato.
Altre opere su cui è necessario porre l'attenzione sono "Madre e Figlio", del 1941, "Hagar II", del 1949 e "Tra cielo e terra" del 1958.
L'opera "Madre e figlio" è una delle prime opere dell'artista al sua arrivo negli USA, dove aveva dovuto rifugiarsi a causa della fede ebraica. È un'opera toccante, nel quale è rappresentata la figura di una donna senza gambe e urlante al cielo con le braccia alzate, la quale porta sulle spalle un figlio; un'opera ad alto valore emotivo e simbolo del dolore causato dalla guerra. L'opera si basa su un ricordo di Lipchitz: nel 1935, durante un soggiorno in Russia, aveva visto questa donna senza gambe, su un carrello, che cantava a squarciagola con le braccia levate al cielo.
Hagar II è una sorta di opera della speranza: realizzata a seguito della nascita dello Stato di Israele, l'opera doveva rappresentare "una preghiera di fratellanza fra ebrei e arabi". Agar è, secondo la Bibbia, la donna con cui Abramo generò Ismaele, considerato antenato degli arabi.
"Tra cielo e terra" è invece una scultura imponente: alla base si hanno delle figure umane, senza volto, che, posizionati in maniera da ricordare una spirale ascendente, sorreggono una mandorla nel quale è contenuta la Madonna, la quale appare anch'essa senza volto; la mandorla viene sorretta da una colomba. Sulla superficie della mandorla compaiono spesso le stelle a sei punte, simbolo dell'ebraismo e tutta l'opera è permeata di temi di origine mitologica. Un'opera che può essere vista come una sintesi fra le varie religioni mondiali, le quali hanno come funzione quella di avvicinare l'umanità (la colonna alla base) alla spiritualità.
Infine merita un accenno l'opera "L'ultimo abbraccio" del 1970, realizzato 3 anni prima della sua morte, e che rappresenta l'ultimo contatto terreno fra un uomo e una donna.
Rispondo adesso alla seconda domanda: queste opere sono arrivate a Prato tramite la moglie di Lipchitz, Yula, la quale, nel 1974, avendo partecipato all'inaugurazione dell'opera di Moore "Figura squadrata con taglio" - il famoso Buco di Piazza San Marco, notò la quantità di opere contemporanee presenti nella città e ritené potesse essere una buona destinazione per le opere del marito.
Tutte le opere presenti alla mostra sono bozzetti (in scala, tranne "Modello per lezione di un disastro" del 1961-1970, che è nelle dimensioni reali) realizzati in gesso dall'autore. La tecnica usata è quella del gesso a pallini: piccoli pallini di gesso vengono agglomerati e modellati dall'autore per poter realizzare la bozza. Lipchitz teneva particolarmente ai propri bozzetti, tanto che è possibile vedere quanto l'artista abbia lavorato e rifinito le proprie opere, arrivando addirittura a firmali.
Essendo dei bozzetti, le opere in origine non dovevano essere esposte e non c'era la necessità che i vari pezzi formanti l'opera combaciassero perfettamente fra loro; inoltre le opere, all'arrivo a Prato, presentavano diversi problemi dovuti all'incuria e al passare degli anni.
È stato necessario quindi restaurare le opere; restauro condotto dall'Opificio delle Pietre Dure di Firenze. L'allestimento, impreziosito dalle gigantografie dell'artista, è molto interessante e rende facilmente percorribile e leggibile l'excursus storico delle opere, soprattutto nella sala dedicata ai disegni.
Gli argani che sorreggono le opere più grandi, necessari visto che altrimenti i vari pezzi delle opere non potrebbero sostenersi, non disdicono nell'ambiente generale, bensì ripropongono quello che doveva essere il laboratorio di Lipchitz (raffigurato in una gigantografia).
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