È passato abbastanza tempo dall'uscita sia del libro (datato ormai 2004) sia del film (fine 2012). Perché aspettare così tanto per una recensione? A parte la sostanziale e innegabile pigrizia che mi contraddistingue, non è facile approcciare la recensione di un'opera che è stata molto criticata e che ha subito pesanti commenti negativi, sia da parte della critica ufficiale che da parte degli spettatori (che soprattutto negli States hanno snobbato il film).
In questa prima parte ho deciso di analizzare il libro - che ammetto di aver letto solo dopo aver visto il film. Il libro è strutturato in diversi racconti e parte da quello più "lontano" nel tempo, il diario di Adam Ewing, notaio che nel 1800 viaggia sul Pacifico bordo della Prophetess per tornare a casa dalla famiglia, in California, dopo un incarico nelle isole australi. Passa poi al racconto epistolare, datato 1931, nel quale un giovane musicista espulso dal conservatorio, Robert Frobisher, scrive al proprio amico Sixsmith (che si capisce da subito essere più di un semplice amico) il suo lavoro presso un vecchio compositore ammalato di sifilide per potersi mantenere; ma come nel caso del diario, a metà del racconto le lettere si sospendono e si passa al racconto della giornalista Luisa del Rey, che negli anni '70 del Novecento tenta di smascherare un complotto di avvelenamento nucleare da parte di una compagnia petrolifera.
Racconto che si ferma per lasciare spazio al "capitolo" più leggero e scanzonato del libro, quello denominato "la tremenda ordalia di Tim Cavendish" ambientato ai giorni nostri, dove il protagonista è proprio il nostro Cavendish, editore che suo malgrado si trova a contendere i diritti d'autore (e i soldi) del libro "Sandwich di pugni" scritto da uno degli scrittori della sua scuderia, finito in galera per aver messo a tacere una volta per tutte un critico (una delle parti più divertenti del libro); per sfuggire ai fratelli inferociti dell'autore - che reclamano i soldi spettanti all'autore, Cavendish chiede aiuto al proprio di fratello, che lo rinchiuderà in una casa di riposo.
Il romanzo autobiografico di Tim si sospende per passare al futuro e più precisamente all'interrogatorio di Sonmi 451, servente che si ribella al suo stato di Untermenschen in un mondo futuristico (ma non troppo fantascientifico) dove esseri non completamente umani vengono creati per essere usati come schiavi; infine si passa all'ultimo capitolo, denominato "Sloosha Crossing e tutto il resto", ambientato in un'epoca posteriore a quella di Sonmi, dove sulla terra l'uomo vive in un'era preistorica, nella quale ha perso quasi tutte le proprie conoscenze tecnologiche ed è tornato a vivere in uno stato primitivo.
Definito da alcuni come un mero "esercizio stilistico" di "difficile" comprensione data la trama intricata (?), io ho invece apprezzato proprio lo sfoggio di bravura che Michtell ci propone. Non è facile scrivere sei "libri" usando registri e stili fra loro diversi e riuscire ad incastrare le storie fra loro creando un effetto matrioska riuscendo a interrompere ogni storia al momento giusto e mantenendo l'attenzione del lettore. Mitchell usa un escamotage molto interessante per collegare i vari capitoli: i protagonisti entrano in contatti con documenti riferiti ai personaggi precedenti, tanto che da questi pare che vengono influenzati. L'immagine che ne risulta è che siano tutti collegati fra loro e che le azioni dei predecessori possano condizionare in qualche maniera la vita di coloro che leggeranno le loro gesta; per rafforzare questa idea l'autore usa un'immagine - abbastanza banale - ricorrente: i protagonisti hanno tutti una voglia a forma di stella cometa.
Come già detto, io ho molto apprezzato il libro sia da un punto di vista formale-estetico sia dal punto di vista contenutistico.
Per quanto riguarda la tecnica, Mitchell non ha, almeno in questo caso, voluto forzare la mano nel trasmetterci un'identità stilistica forte e riconoscibile, proprio perché l'obiettivo è quello di farci leggere sei libri diversi. Lo stile linguistico e strutturale dei vari capitoli cambia per sottolineare il fatto che si ha un cambiamento non solo nella tipologia di racconto, ma anche di spazio e tempo. Magistrale, a mio parere, è la lingua utilizzata nel capitolo "Sloosha Crossing" dove proprio la mancanza di grammatica o sintassi corretta ci fa capire che c'è stato un decadimento nei costumi umani. Le differenze maggiori poi sono nel registro usato: dall'umoristico semi-serio dell'ordalia si arriva ai toni cupi e malinconici dell'interrogatorio di Sonmi.
Quello che più mi ha colpito, però, è la trama o, meglio, l'idea di base che il libro vuole trasmettere e che diverge totalmente da quella del film. Trama sulla quale molti critici si sono persi proprio perché strutturata in modo da lasciare aperte molte porte all'interpretazione personale: da quella metafisica dei mondi paralleli che si incontrano (ma non era vero che due rette parallele non si incontrano mai?) a quella new-age della reincarnazione e del rincorrersi delle anime nello spazio-tempo (e che però non torna con l'età dei vari protagonisti) fino a quella "è troppo complicato, troppi collegamenti" e alla domanda "perché ti sembra complicato?" ti osservano con il sagace sguardo dello sgombro mediterraneo cotto al vapore (pesce lesso). Essendo io invece una persona poco fantasiosa e scarsamente incline a riflessioni profonde, ritengo che il messaggio del libro sia abbastanza chiaro e talvolta ribadito fin troppo.
Come uomini del XXI secolo siamo stati condizionati nella nostra educazione, volenti o nolenti, dalla teoria evoluzionistica darwiniana, dove si ha una selezione naturale che premia chi meglio riesce a sopravvivere in un determinato ambiente; nonostante questo siamo fondamentalmente convinti che questa lotta debba essere vinta dai più buoni o quantomeno dai più meritevoli e che alla fine l'uomo sarà più responsabile e capace di gestire la terra su cui vive. Questa idea irrealistica viene fomentata all'inizio dall'autore, tanto che sembra voglia far finire positivamente ogni racconto, come per sottolineare un'evoluzione dell'uomo in chiave migliorativa. Il problema è che il finale cambia tutte le carte in tavola, tanto che la scelta di concludere il libro con una regressione completa del genere umano ad un livello quasi preistorico destabilizza, e non poco.
Manca inoltre quel velo di buonismo che contraddistingue il film (di cui parlerò nella seconda parte), mentre invece viene sottolineato come quasi mai la bravura, la bontà e l'intelligenza possano portare qualcosa di buono agli esseri umani presenti e futuri; anzi, sottolinea come in realtà la storia non insegni niente ai propri figli e come questa abbia la tendenza di ripresentarsi con gli stessi errori ed orrori in maniera ciclica: la negazione dei diritti dei più deboli, la mancanza di umanità e fratellanza fra le persone, la volontà di sfruttare la buona fede del prossimo è una costante di ogni epoca. Nonostante questo non lo definirei un libro pessimista, perché nel mare dell'orrore emerge sempre una figura (l'eroe?) che tenta di dimostrare che un'altra scelta c'è, è possibile e la persegue, anche se sa che sarà solo e che in pochi potranno beneficiare del suo sacrificio nel breve termine. Quella che Mitchell ci offre è una possibile visione dell'uomo passato, presente e futuro e di come, in realtà, ognuno di noi sia una nuvola collegata agli altri non solo nello spazio, ma anche nel tempo.
Titolo: Cloud Atlas - L'atlante delle nuvole
Autore: David Mitchell
Traduzione: Luca Scarlini e Lorenzo Borgotallo
Editore: Sperling & Kupfer per Frassinelli
Anno: 2005
ristampa 2013 VII edizione
Pag. 597
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